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Antonio Sotgiu, designer |
Incontro
casualmente Antonio Sotgiu, un mio ex compagno di scuola. Non ci vediamo da una
ventina d’anni. Siamo entrambi in vacanza a Turris.
Antonio è di
quelli che hanno creduto all’ impossibile e lo hanno realizzato. Vive a Milano,
da venticinque anni lavora nella moda.
Non potevo
esimermi dal chiedergli del suo lavoro, di cui conoscevo frammenti per me avvolti nella leggenda.
Così, ci
prendiamo un caffè al bar.
Gli chiedo se
posso registrare la nostra conversazione per il mio blog.
A.R. C.
Raccontami del tuo lavoro.
A.S. Ho
chiuso da poco uno dei miei ultimi progetti realizzati: Punto 47.
Punto 47 nasce dieci anni fa da un sogno. Un sogno
vero e proprio. Te lo racconto.
Ho sognato di essere in un bosco pieno di container,
tutti bianchi. Sono entrato in uno e all’ interno c’erano esattamente tutte le
cose che a me piacciono: cose vecchie mischiate, orologi smontati, manichini,
c’erano cose molto belle. Ero con una mia amica, dentro non c’era nessuno. Era
tutto così come l’avevo nella mia testa. Era un contenitore. Ad un certo punto
dal container esce un signore. Gli chiedo se fosse possibile comprare qualcosa.
<<Purtroppo non è in vendita - mi risponde- questa è una esposizione temporanea, è un
luogo non luogo>>.
<<Che cosa interessante!>> Mi dico. Si
parla, oramai, di dieci anni fa.
Quando esco dal container, mi accorgo che il bosco è
pieno di parallelepipedi bianchi, il mio ha sopra scritto 47.
<<Perché non lo fa lei!>>, mi dice.
Poi, mi sono svegliato.
Ho raccontato tutto alla mia amica, quella che era
nel sogno con me. Mi ha detto fallo subito, scrivi tutto e fallo! Facciamolo
sul web che è il luogo non luogo per eccellenza.
A.R.C. Come è
stata la genesi strutturale di Punto 47?
A.S. Come
ti ho detto Punto 47 nasce una decina di anni fa, da questo sogno e da una mia
idea di ristrutturare e dare nuova vita a quello che sono le tracce del
passato. La contaminazione tra oggetti diversi che destrutturati e ri-assemblati
prendono un’altra vita in forme diverse e oggetti nuovi.
Mi affascinava questo aspetto, molto prima della moda
del vintage: ristudiare pezzi contemporanei, di alta sartoria ristudiarli e riadattarli.
Mi affascinava l’idea di dare una nuova vita a cose diverse: dei vecchi tessuti
potevano diventare una borsa, elementi strutturali di abiti importanti
diventare bijoux.
Io ho, per il mio lavoro, una mappatura di molte
città: New York, Parigi di cui ho conservato indirizzi personalissimi.
Da qui nasce il progetto. Con Riccardo Perna abbiamo
creato Punto 47. Dopo una gestazione lunga, due anni fa è stato definito sulla
carta e depositato il marchio. Io vivo a Milano, lui a Firenze. Abbiamo due occhi
diversi sul mondo. Lui si occupava di progetti satelliti, di cose che ruotano
attorno al progetto principale, io mi occupavo di moda. Riccardo nasce come
modello, si occupa d’arte. Vive a Firenze, il centro della lavorazione della
pelle in Italia, realizza micro collezioni di pelletteria, a livello altissimo,
inerenti allo spirito di Punto 47. Io nasco dalla scuola d’arte, come tu ben
sai, ho poi fatto una scuola di moda, nasco come designer.
Tra le prime cose è nata una linea di colletti
gioiello, oggi molto diffusi. Ho creato un filone che ha fatto moda. In seguito
una linea di borse a partire da materiali diversi.
A.R.C. Rivisiti
quello che è un elemento importante della camicia, della giacca. Un elemento
importante della sartoria.
A.S. Sì,
oltre tutto ho cercato di usare tessuti diversi. Ho inserito tessuti della
tradizione sarda, tessuti che trovo di livello altissimo e molto raffinati. Si
è abituati a vedere l’artigianato sardo, con il sughero, con il colore. Ho
deciso di utilizzare il bianco del cotone, l’argento dei bottoni. Ho ripulito
tutto. Perché sono elementi già di per se molto sofisticati.
Un altro progetto riguarda le borse. Ho realizzato
delle borse a partire dalla juta. Mi affascinava l’immediatezza. Della juta mi
piacevano i timbri di vari paesi. Ho preso dei sacchi di juta utilizzati per il
caffè con il timbro di ogni parte del mondo. Pur nel modello uniformato ogni
borsa era unica, il materiale interno ed esterno era sempre diverso. Chiunque
comprasse una borsa di Punto 47 aveva una esclusività nella ripetizione. Questa
è una cosa che mi ha sempre interessato della Pop Art e di Andy Warhol. Nei
miei progetti ho sempre perseguito idee dell’arte da applicare alla
progettazione, al design.
A.R.C. Guardare
il mondo che ci circonda è fondamentale, seguire l’arte e gli artisti per un
designer è cibo. Ho notato, però, che nel tuo lavoro è presente un concetto
fondamentale che si unisce alla conoscenza dei materiali, dell’arte
contemporanea: il refashioning, l’ecoglamour, l’idea di riciclo. Questo termine
fa pensare a spazzatura, userei il termine reimpiego. Tu non usi scarti, ma
elementi o addirittura interi abiti di alta sartoria.
A.S. Mi fa
piacere che mi chiedi questo.
Per un periodo mentre transitavo da un’azienda ad un
altra, sono stato il responsabile di Atelier
del Riciclo. Il riciclo è sempre stato visto come una cosa da mercatino, da
decoupage, una cosa un po’ povera. Noi abbiamo voluto dall’ inizio occuparci di
materiali di alta moda. Già prima utilizzavo materiali di recupero.
Per l’ Atelier
del Riciclo mi occupavo di una linea che si chiamava EcoGlam. Recuperavo elementi e materiali dell’alta moda destrutturati
e ri-assemblati, interventi creativi di alta sartoria, abiti, tirelle del
tessile griffato, trasformati in pezzi unici di alta moda. In quella occasione
ho avuto la possibilità di venire a contatto con artisti molto interessanti
come Isacco Brioschi, architetto e green design ideatore dell’architettura
organica e dei giardini verticali.
Ho collaborato un po’ di tempo con Atelier del Riciclo e ho proseguito
seguendo questa linea. Sono stato sempre interessato a cose che hanno un
vissuto. Non mi interessano le cose nuove.
A.R.C. Del
resto è un aspetto che riguarda il lavoro di qualunque creativo, anche solo
nella citazione. Tu parti dai materiali che smonti e ricomponi, guardi alla
storia della moda e a quella dei materiali.
Oggi a
proposito delle nostre città, Renzo Piano parla di “rammendo” delle periferie,
le città del futuro. Certo per l’architettura non si può parlare di riciclo, ma
l’idea di destrutturare e ricomporre, scucire e cucire mi sembra possa
adattarsi a questo nostro nuovo medioevo. “Cucire e ri-fertilizzare”.
A.S. Ma
senti queste cose io le ho fatte molto istintivamente, come ti ho detto mi
interessano le cose che hanno un vissuto. Avendo alle spalle degli studi
artistici, il mio tempo prezioso lo dedico ancora all’ arte, alle cose che ancora
mi accrescono: fotografo, dipingo, ma sopratutto fotografo e mischio queste
cose.
Anche la mostra sul tempo che passa era tutta sul bianco,
come il muro, come la tela. Piccoli collage i cui componenti erano frammenti
piccolissimi di libri dell’Ottocento, frammenti di carta ingiallita per il
passare del tempo,oppure linee ottenute da frammenti piccolissimi di tessuti. Su
queste c’era una sagoma allungata. La sagoma era parte di foto che ho scattato
a New York, si chiamavano New York. Era
la mia sagoma che si allungava con l’allungarsi della della luce del sole.
Ho riportato questi temi nei miei progetti di moda:
il tempo, il fatto a mano, l’usura del tempo. Questa è una cosa che a me ha
premiato molto. Cercherò di preservare le tracce di bellezza presenti nel
passato.
A.R.C Questo è
il risultato di un lungo lavoro e tanti anni di esperienza, 25 anni nella moda.
Tu hai fatto
studi artistici, hai frequentato l’Istituto Statale d’Arte di Sassari, oggi
Liceo Artistico “F.Figari”, dove ci siamo conosciuti. ”Grafica pubblicitaria e
Fotografia”, potevi fare il fotografo, il grafico. Come nasce l’incontro con la
moda? Che tu praticavi già, mi ricordo disegnavi, cucivi, avevi le tue linee
personali.
A.S. Nasce
per un caso fortuito. Dopo il liceo artistico ho fatto una scuola di moda
francese in Italia, mi sono diplomato a Parigi. Ho iniziato immediatamente,
sono stato fortunato perché già dalla scuola le mie insegnanti mi presero nello
studio per disegnare. Mi pagavano a disegno. Io non sapevo cosa volesse dire.
Loro erano delle consulenti e avevano un gruppo di ragazzi che disegnavano.
La mia vicina di casa era Ernestina Cerini,
stra-famosa alla fine degli anni Ottanta –Novanta. La ricordo con molto affetto,
siamo ancora molto amici. E’ stata l’anti-diva per eccellenza ed è quella che mi
ha insegnato il valore della pazienza, della costanza, del lavoro. Finito lo
scuola mi hanno preso subito da Versace. E’ stato un avanzare veloce. Ho lavorato
tanti anni con Gianni Versace ho fatto le prime linee, poi sono diventato consulente
artistico di Alviero Martini, prima classe, di tutte le licenze, le borse per
cui lui è famoso. Ero il direttore dell’ufficio stile: uomo, donna, casa.
Un’esperienza molto formativa.
A.R.C. Da
questa conversazione viene fuori che credere nel proprio lavoro paga. Certo ci
vuole fortuna, ma crederci, impegnarsi porta a dei risultati. Essere spesso
ingenui fa imboccare strade sconosciute e spesso fortunate.
A.S. Stai
descrivendo la mia esperienza. La mia ingenuità mi ha portato qui. Non voglio
perdere questa mia chiamiamola “ingenuità”. Dopo Martini sono stato da
Miroglio. Miroglio è il terzo gruppo in Europa, eravamo ottomila, erano
milleduecento nella sede dove lavoravo io. Sono stato product manager per la
linea Dream, Elena Mirò, Motivi, Oltre. In quel contesto non potevo più essere
ingenuo, però mi ha difeso. Una frase che dico sempre è “Quello che mi salverà
non è il mio talento, ma non prenderlo troppo sul serio”.
Naturalmente so di valere, me lo hanno dimostrato le
case per cui ho lavorato, però cerco di avere lo stesso disincanto di quando
faccio le foto, dipingo, i miei piccoli progetti.
Per un certo periodo ho perso questo disincanto. Mi sono salvato perché, per problemi miei personali, sono passato da una grossissima realtà come Miroglio a un progetto molto più piccolo. Tutti mi chiedevano <<ma come mai fai questo?>> Invece il disincanto mi ha aiutato a stare in una nuova situazione per tre anni e mezzo- che si è appena conclusa - con molta tranquillità e serenità. Io avevo dodici assistenti e sono passato ad essere io l’assistente di me stesso.
Per un certo periodo ho perso questo disincanto. Mi sono salvato perché, per problemi miei personali, sono passato da una grossissima realtà come Miroglio a un progetto molto più piccolo. Tutti mi chiedevano <<ma come mai fai questo?>> Invece il disincanto mi ha aiutato a stare in una nuova situazione per tre anni e mezzo- che si è appena conclusa - con molta tranquillità e serenità. Io avevo dodici assistenti e sono passato ad essere io l’assistente di me stesso.
A.R.C. Secondo
certi ambienti poteva apparire come una retrocessione, non essere più al top.
A.S. Sì. In
realtà non è così. Questa esperienza
mi ha permesso di sperimentare cose che altrimenti non avrei mai fatto.
Sperimentare materiali che non conoscevo. Se mi posso permettere un consiglio
per chi si occupa di creatività dico: sperimentare, vedere, non fermarsi mai.
E’stato lo spirito di Punto 47.
A.R.C.
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