Una lunga conversazione con Giusy Calia mi dà l’opportunità di comprendere meglio l’evolversi del suo lavoro, nato attorno a due o tre temi privilegiati.
A partire dal concetto di eccentricità, come posizione rispetto ad una norma codificata (in “Sylva” 2010-2012 e, la follia declinata nelle varianti in “Case matte”
2004-2014, “Ofelie” 2002-2014) Giusy Calia costruisce un
mondo esteticamente piacevole nel quale si insinua continuamente il verme del non
detto, del sopruso, del pregiudizio, della violenza rappresentata all'interno di ambientazioni teatralizzate e inserita in contesti riflettenti come l'acqua, in un continuo capovolgimento del reale nel riflesso, del soggetto nel
simulacro.
La messa in scena e il
travestimento sono al servizio della fotografia come mezzo capace di dare corpo
ad un luogo parallelo, una realtà altra dove il bello conforme si corrompe con
il non conforme dell’emarginato; l’interesse per la psicologia e l’attrazione
verso tutto ciò che è oscuro si trasformano nel materiale di lavoro.
Con “Alchimia
dell’immagine” arriva a sondare gli interrogativi dell'irrazionale attraverso la bidimensionalità decorativa, annullando quasi completamente la profondità di
campo e la piacevolezza del soggetto ritratto, in un viaggio ancora tutto da
fare, nel groviglio che è la mente umana.
Raccontami come è nata la cartolina
per “La magnifica ossessione”, un progetto a cui sono legati altri incontri e
altri progetti.
G.C. L’incontro
nasce da una casualità, come tutte le cose che mi accadono. Da una sorta di
sincronicità.
Nel
settembre 2013 mi trovavo a Rovereto. Mi è stato chiesto di guardarmi intorno
ed avere un’idea, rispetto ad una cartolina che avrebbe dovuto viaggiare per il
mondo. Poi, mi è stato chiesto: qual è la tua ossessione? La mia “Magnifica
ossessione” chiaramente è Ofelia. Uno dei miei lavori sempre aperti. E’ il
mio dialogo costante e continuo.
Nel
momento in cui ho visto la cupola che si rifletteva nella fontana del Museo Mart
ho immediatamente visualizzato un’ Ofelia.
Avevo
una macchinetta che uso come diario, la macchinetta degli appunti, non avevo
nessuna strumentazione. Ho potuto scegliere la modella tra alcune ragazze messe
a disposizione per lo scatto e una sarta per l’abito. In pieno settembre, inizi
ottobre la modella è stata buttata nell’acqua della fontana.
E’
stato molto interessante, più delle altre “Ofelie” che erano immerse nella
natura, questo è immersa in un’architettura. Ho realizzato quattro scatti, non
era possibile lasciare la modella nell’acqua gelida per più tempo. E’ nata
così questa cartolina, che ha viaggiato più di me.
A.R.C. Prima di parlare degli
ultimissimi progetti, rimaniamo sulle “Ofelie”. Sono un filo rosso di tutta la
tua ricerca artistica. Un progetto aperto, come hai detto prima. Raccontami di
questa serie infinita.
“Ofelie”
nasce nell’incontro con le mie viscere, con tutto ciò che è rimosso. Per me le ”Ofelie”
hanno un aspetto sia mortifero che di profonda vitalità.
Nasce
dall’incontro con i Prerafaelliti, all’età di quindici anni. Ne fui
immediatamente colpita. Hanno sempre rappresentato il mio immaginario poetico,
letterario, visivo. Partendo dai Preraffaelliti sono approdata alle Ofelie.
La prima Ofelia è stata realizzata a Su Cologone (NU) nel 2002. L’acqua sempre gelida, sempre temperature al limite del freddo obitoriale.
La prima Ofelia è stata realizzata a Su Cologone (NU) nel 2002. L’acqua sempre gelida, sempre temperature al limite del freddo obitoriale.
Per
quanto possano apparire rassegnate, per me sono donne che prendono in mano il
proprio destino -al contrario di Amleto-, decidono con chiarezza quello che vogliono
dalla loro vita e si fanno soggetto narrante, cosa che Amleto non fa nella
interrogazione continua e costante di sé e del fantasma del padre. Per me
Amleto è mortifero e Ofelia è la vita.
Poi è arrivata la lettura di “Psicoanalisi delle acque” di Gaston Bachelard, che ha tradotto
quelli che sono per me degli aspetti simbolici intraducibili. Lui è riuscito a
tradurli in parole, io ho cercato di farlo in immagini.
Mi
rendevo conto che a queste ”Ofelie” mancava sempre qualcosa, sempre di più.
Per questo l’Ofelia del Mart è stata quasi un punto fermo. Da quella in poi ho deciso di fare altro, di avere una visione diversa della mia “Ofelia”. In realtà, posso dire che Ofelia sono io e di essere cresciuta attraverso queste immagini.
Per questo l’Ofelia del Mart è stata quasi un punto fermo. Da quella in poi ho deciso di fare altro, di avere una visione diversa della mia “Ofelia”. In realtà, posso dire che Ofelia sono io e di essere cresciuta attraverso queste immagini.
Le
mie modelle hanno avuto un rapporto super particolare con l’acqua, sono loro
che si sono espresse.
Ho sempre lasciato loro la libera espressione.
Ho sempre lasciato loro la libera espressione.
Mi
ricordo una modella, Sara, una delle “Ofelie” esposte a Palazzo Fortuny per la
mostra “Le amazzoni della Fotografia”, ad un certo punto è diventata un
tutt’uno con i rami.
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Giusy Calia, "Memoria dell'acqua", 2013-2014, Collezione Trevisan |
G.C. Sono stata invitata da Mario
Trevisan, un collezionista, che ha visto proprio l’immagine della “Magnifica
Ossessione”. Ha voluto vedere altri miei lavori, mi ha contattato, e ha scelto per
la sua collezione due mie fotografie.
A.R.C. Deve essere stato
particolarmente emozionante per te essere nella stessa mostra con Julia M.
Cameron, Diane Arbus, Bettina Rheims. Quelle che indirettamente sono state le
tue maestre.
G.C. Diciamo un sogno realizzato. Quando
ero piccola trovai un catalogo, in un mercatino dell’usato, di Julia M.Cameron,
e me ne sono profondamente innamorata.
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Giusy Calia,"Sylva", 2010 |
G.C. Sì, immagina essere esposta accanto
ad una delle mie più grandi maestre, vedere il mio nome tra queste grandi. E’
stato emozionante, ma l’ho preso con grande ironia, quasi un capriccio del
destino.
A.R.C. E’ stato un riconoscimento del
tuo lavoro.
G.C. E’ stato un grande riconoscimento,
come è accaduto in Russia...
A.R.C. Ecco, parliamo della Russia. Negli
ultimi due anni sono accadute cose molto interessanti, ad esempio hai
partecipato alla quinta 5^ di fotografia di Mosca 2013, in uno degli eventi
collaterali “Venti per una” a cura di Martina Corgniati.
G.C. Grazie alla
cartolina della “Magnifica ossessione”. Ha viaggiato più di me come ti ho
detto, ed è arrivata nelle mani giuste. Martina Corniati mi ha chiamato, ha
chiesto il mio numero di telefono per invitarmi a questo progetto. Sono stata
molto felice di farlo, avrei voluto anche andare di persona, non ho potuto
farlo per varie ragioni. Così è nato “Una stanza tutta per sé”.
A.R.C. Ancora un tuo punto di riferimento
letterario, questa volta Virginia Woolf. Il tuo lavoro è un insieme di punti
di riferimento visivi, letterari, poetici ed emotivi.
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Giusy Calia, "Una stanza tutta per sé", 2013-2014 |
A.R.C. Lo dicevamo prima. Il tuo è un
lavoro di incontri. Ritorniamo alla Biennale di Mosca. Raccontami.
G.C. La fotografia è piuttosto grande.
Sono tre stampe del manicomio di Firenze, riprese in tre diversi momenti. Il
primo momento è quello nel quale la natura non ha corroso niente di questa
stanza: ci sono frammenti di cose abbandonate. Poi, arriva l’acqua e terzo la
muffa. E come se entrando nella stessa stanza ci trovassimo difronte ad un
mondo altro.
Giusy Calia, "Caratteri ereditari e mutazioni genetiche", 2011, Man, Nuoro, dettaglio |
G.C. Ho fotografato anche il manicomio di
Cagliari, di Udine, Firenze, Siena. Ho fotografato vari manicomi d’Italia. E’
come se avessi fotografato sempre lo stesso manicomio, perchè quello che si
trova è sempre la stessa cosa.
A.R.C. Sono tutti uguali,
architettonicamente, il rapporto tra lo spazio esterno e il degrado interno.
Quasi tutti sono edifici abbandonati.
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Giusy Calia, "Caratteri ereditari e mutazioni genetiche", 2011, Man, Nuoro |
L’ultimo
lavoro che ho fatto sui manicomi è proprio il lavoro di NOF, è l’acronimo del
suo nome, così si definisce NOF4.
A.R.C. Nel tuo immaginario si muovono
tre o quattro temi molto legati, si incastrano a partire da un’estetica preraffaelleita
che necessariamente include Julia M.Cameron, Virginia Woolf, Ofelia, la follia.
Hai da subito creato un intreccio che è diventato il nucleo del tuo lavoro a
partire dalle “Ofelie”. Mi colpì subito moltissimo, il progetto era ancora
molto giovane, ma era difficile distogliere lo sguardo.
Protagonista del tuo ultimissimo
lavoro è però una parte dell’occhio: l’iride.
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Giusy Calia, "Alchimia dell'immagine" 2013-2014, Mart, Rovereto |
Da
quel momento ho iniziato a capire che dentro l’occhio c’era un’esigenza, quella
di essere tradotto, ma tradotto nella mia forma. Mi sono chiesta cosa può
tradurre qualcosa senza disperderne l’essenza? L’alchimia.
Ho
ripreso delle antiche foto fatte in libri vecchissimi, fatte andando per musei.
Ho molte immagini delle tavole alchemiche. Mi son chiesta perchè non
mischiarle? Provare a creare una commistione tra occhio e parole, le parole e
le immagini, parole e simboli. Così è nato qualcosa di molto interessante per
quanto riguarda il colore, la forma, la dimensione, apparentemente intraducibile,
illeggibile.
A.R.C. Rispetto ai tuoi lavori
precedenti, in “Alchimia dell’immagine” prevale la linea e il colore, sembrano immagini
astratte, un bidimensionale quasi assoluto. E’ difficile riconoscere soggetti
completi. Tutto si svolge in superficie. Riconduce ad un’estetica primitiva,
medievale. E’ presente molta decorazione.
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Giusy Calia, "Alchimia dell'immagine" 2013-2014 Mart, Rovereto |
G.C. Sì, quasi
Medievale. Mi sono resa conto guardando tutte le immagini di aver citato, involontariamente, questa volta, senza nessun tipo di ragionamento “Il libro
rosso” di Jung. Mi sono resa conto di avere ripreso un filo rosso con un altro
mio maestro. Ho sempre considerato Jung un mio maestro.
Mi
ha permesso di aprire molte porte che io pensavo dovessero rimanere chiuse.
Come se mi avesse detto sei sulla buona strada. Come dici tu questo lavoro è totalmente
diverso dagli altri.
Non
riesco più ad accontentarmi della fotografia semplice. Ho bisogno della
materia. Mi piace la foto sgranata. Forse è un’esigenza di pittura.
Ora
sto lavorando ad un progetto che si chiama “Simbolismo”. Tutte le immagini che
ho scattato sono sovrapposte. Ho bisogno di colori acidi, di colori densi. Una
realtà fornita di uno sguardo oltre.
A.R.C. Tutto questo era già presente
in “Caratteri ereditari e mutazioni genetiche” 2011, dove alcune foto erano molto
scure, altre graffiate. Il materico si percepiva molto.
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Giusy Calia, "Alchimia dell'immagine" 2013-2014 Mart, Rovereto, dettaglio |
Hai superato la bellezza dei
Prerafaelliti?
G.C. Ancorarsi
alla bellezza ti fa sentire sicuro. Non ho più paura della bruttezza, la voglio
affrontare.
Chi
crea immagini ha una forte responsabilità. Perchè l’immagine è un veicolo molto
superiore alla parola, arriva senza mediazione, muove aspetti a livello
inconscio molto forti.
Non
mi interessa proporre immagini eccessive. Anche le immagini di DNA riconducevano
alla bellezza, non erano sgradevoli. Però era come se in qualche modo non ti concedessero riposo. Ti
interrogassero. Ti ponevano un dubbio.
A.R.C. A proposito di interrogativi e mancanza
di riposo. Mi è venuto in mente un tuo lavoro sulla stanza di Alda Merini che
hai realizzato per la mostra “Ma Maison n'est pas Grande”. Come è stato fotografare
Alda Merini entrare nel suo mondo.
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Giusy Calia, "Alda Merini un'anima sconosciuta" |
Era sempre pronta a cambiare immagine, ti destabilizzava.
Però fotografarla è stato super interessante.
Mi
pento di una cosa, un giorno avrei potuto fotografare tutta la casa, e forse
avrebbe parlato più di lei, anche perchè le immagini di Alda sono molto
riconoscibili.
Pensa al suo muro dove scriveva con il rossetto. Con il rossetto scriveva anche sul suo corpo, era tutto sbavature.
Pensa al suo muro dove scriveva con il rossetto. Con il rossetto scriveva anche sul suo corpo, era tutto sbavature.
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Giusy Calia, "Alda Merini", 2013, dettaglio |
Il tema era la casa, in una casa, mi sembrava più interessante. Era per pochi in quel momento. Anche se la mostra è stata visitata, ma la dimensione domestica mi interessava per la sua intimità.
Per
me le mostre più belle sono quelle che non ho mai fatto per un pubblico.
La
mostra più bella è stata quella che ho fatto per una sola persona, nei vagoni
di un treno abbandonato. Così come è stato l’allestimento di una mostra in una Villa
abbandonata del Piemonte.
A.R.C.
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L'invitation au voyage - Giusy Calia:
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