martedì 19 novembre 2019

BAROQUE I (floreale)

Corpi santi, corpi mistici, corpi eterni, reliquie e santoni. Sono certa di aver fotografato il fiore di ceroplastica, così come Big Clai #4 di Urs Fischer. So di averlo fatto, perché mi aveva colpito la polemica sulla distruzione anticipata delle statue sull’arengario di Palazzo Vecchio. Non le trovo più. C’è un momento nel quale la grandezza si fa magmatica e tutti pensano che quella cosa argentata al centro di Piazza della Signoria sia un grande stronzo, letteralmente la rappresentazione di un enorme ammasso di merda monumentale color argento. Noi guardiamo l’ammasso di materia Big Clai #4 (giuro, l’ho fotografato) travestito da merda luccicante di Urs Fisher, nel mentre i ritratti in cera con fiammella incorporata, esposti sull’arengario rovinano al suolo prima del previsto. Un piccolo errore di calcolo di chi ha realizzato il piedistallo, si dice. Le opere di Fisher sono sculture di cera che all’interno custodiscono un meccanismo, una fonte di calore con la precisa missione di fondere l’opera dall’interno, lentamente. Una delle due sculture, non ricordo se il ritratto di Francesco Bonami il curatore o Fabrizio Moretti il presidente degli antiquari, organizzatore dell’evento, è crollata al suolo, ed entrambe sono state rimosse prima del previsto. Punite per la mancanza di professionalità di un produttore di piedistalli? Ma il grande Clai continua a non piacere a nessuno.




Sussidiario

Uomini che amano le piante e Plant Revolution di Stefano Mancuso mi hanno acceso un rinnovato interesse verso le piante. Alcune sue affermazioni sono sconvolgenti, ad esempio secondo Mancuso le piante avrebbero capacità mimetiche straordinariamente superiori se paragonate a quelle animali, possono mutare forma e addirittura potrebbero vedere. (Ricordare di prendere in considerazione questa ipotesi).

Ho un discreto pollice verde. Nonostante non abbia più un terrazzo per esercitare i miei pollici, sono riuscita a far crescere persino il sedano sul davanzale della finestra (per poco tempo). Potrei considerare le mie piantine “singolari” perché nelle ristrettezze dello spazio risultano infinitamente generose, ma le singolarità di cui parla Mancuso sono impressionanti. La Boquilla trifoliata, una liana che cresce nelle foreste temperate del Cile, ha una straordinaria capacità: imita ogni volta e con grande abilità le foglie della specie “ospite”. Può cambiare forma così da confondersi con la pianta vicina. Un vero mutaforma. Come fa una pianta che non vede, a sapere cosa deve imitare? Per imitare qualcuno o qualcosa dovresti vederlo. Mancuso apre una ipotesi sconvolgente: le piante potrebbero avere una qualche capacità di “visione”. A quanto pare non è un fatto così fantascientifico, infatti, continua Mancuso, nel 1905 il famoso botanico Gottlieb Haberlandt propose una teoria per la quale le piante avrebbero la capacità di percepire immagini -quindi sarebbero in possesso di una sorta di capacità visiva- grazie alle cellule dell’epidermide. Il fatto che il mio basilico possa vedermi è elettrizzante. Esistono le prove (non per il mio basilico), Harold Wager durante una conferenza scientifica a Londra, mostrò al pubblico fotografie prodotte utilizzando come lenti cellule dell’epidermide fogliare di diverse specie: ritratti abbastanza dettagliati di persone, panorami della campagna inglese. Inquietante e affascinante. Ultimamente quando passo davanti ai vasetti del mio piccolo boschetto di aromatiche faccio un cenno di saluto, per educazione.


Dopo aver letto Mancuso e le informazioni inquietanti sulle abilità e sulla ipotetica capacità di visione delle piante, di fronte alle foto di Špela Volčič mi chiedo chi ha guardato chi? Chi ha fotografato chi?
Queste immagini sono perturbanti. E’ strano perché sono fotografie di fiori, dovrebbero mostrare tutta la freschezza e leziosità del soggetto: fondo nero, atmosfera mistica. Sono molto belle, ricordano le nature morte fiamminghe. Ecco perché mi inquietano, ho sempre trovato rivoltanti quelle tavolate di cibo e animali morti. I fiori no, neppure certe composizioni di frutta. Amo Francisco de Zurbaràn. Sta di fatto che a guardare queste composizioni provo un turbamento, lo stesso che mi suscitano certi stucchi. Mi avvicino, guardo con maggiore attenzione. Sono finti! Magistrali imitazioni in stoffa e silicone. Špela Volčič ha fotografato fiori finti. In alcuni scatti, il fiore, non è neppure un fiore, è la fiammata di un petardo. Polvere da sparo che imita la vitalità della natura, un esplosione che finge di essere un fiore. Copie e falsi, mutaforma e imitatori. Meravigliosa piega barocca. La nostra epoca ama il silicone quanto il seicento amava la cera, le parrucche e la cipria. C’è qualcosa di torbido che mi attrae. Intanto, Cai Guo-Qiang infiora di corolle di fumo e fuochi il cielo autunnale di Firenze, credendosi Flora. Cai Guo-Qiang è un artista cinese che dell’arte dei fuochi di artificio ha fatto arte visiva. L’antica arte dei fuochi d’artificio, delle polveri si fa bouquet. Eppure quando sulle tele cerca di tracciare il contorno della bella figura botticelliana della Primavera, specchiandosi in lei, al discorso si sostituisce l’eco, l’ultima sillaba si ripete come un mantra, una consolazione vuota, l’immagine non dice nulla. Cosa vuol dire dialogare a distanza? Ma quanto deve essere questa distanza? Metri, chilometri, anni, secoli. Mi viene da pensare che a volte come uno spirito maligno la didascalia si impossessa degli artisti e appiattisce ogni volontà di complessità, di stratificazione di senso. La Primavera versione stencil di Cai Guo-Qiang, fa l’occhiolino dalle tele esplose, ammicca sotto uno strato di polveri colorate ma non incanta. E’ solo una figurina piatta come le bamboline di carta della mia infanzia. Preferisco i fuochi d’artificio. Nel gesto interiorizzato della polvere da sparo c’è una sincerità che la bambolina ritagliata non ha. Per quale motivo forzare un soliloquio e chiamarlo dialogo? Il dialogo prevede che l’altro risponda. Botticelli non ha proferito parola. Il cielo continua a fiorire e parla.

Sussidiario

"Nella pittura cinese tradizionale lo spazio è un sentiero che si snoda per il mondo, è un serpente, un dragone nella vasta immensità della tela; nella pittura rinascimentale le leggi matematiche della prospettiva conducono verso un punto, l’obiettivo è governare e unificare." In occidente, l’esigenza di lasciare il punto di vista unico e vagare liberamente sulla tela ha catturato la fantasia degli artisti più scaltri. Tra colonie, mercanti e naufragi sono arrivati i dipinti dalla prospettiva rovesciata, con più fuochi, linee sinuose, i pittori più arditi ne hanno concepito lo spazio rivoluzionario e hanno trasformato la finestra rinascimentale in un deserto di dune, uno stagno di ninfee, un mare in tempesta e un campo di grano. Che sarebbe l’arte occidentale senza questo meraviglioso matrimonio? Monet, Van Gogh, Toulouse Lautrec. L’arte orientale oggi stipula un nuovo accordo.

Un vaso in fondo cos’è? Un contenitore, lo decori e diventa un bell’oggetto d’arredo. Ma è davvero solo questo? Del manufatto ceramico è importante riconoscerne l’impasto, la lavorazione, la cottura e la decorazione. Ognuno di questi passaggi ha un significato, comunica dati, orienta lo storico nella scrittura. Un frammento ceramico è la chiave d’ingresso ad un'epoca. Molti artisti moderni hanno lavorato la creta, sperimentato la ceramica a livelli eccellenti. L’associazione tra ceramica e libertà di espressione, appartenenza alla comunità, tradizione e visione del futuro pare ritrovare spazio tra gli artisti contemporanei. Ultimamente mi sono imbattuta in moltissime mostre di opere realizzate in terracotta, ceramica e porcellana. Ho iniziato a rifletterci ripensando ad una performance di Ai Wei Wei. Nel gesto di manifesta e sfrontata indifferenza dell’operario cinese impersonato da Ai Wei Wei in Dropping a Han Dinasty Urn vengono evocate macerie, macerie culturali. La performance in realtà è sintetizzata in un trittico fotografico, l’intento sembra essere quello di mostrare una sorta di moralismo rovesciato. Tre scatti per una sequenza. Tre precise pose. L’artista sembra un attore di teatro dell’opera di Pechino, lo sguardo è distaccato, come una divinità indifferente alla sorte del mondo. Nella prima foto tiene tra le mani un vaso, non è il fazzoletto di una dama in un dramma decadente, le mani si aprono e lasciano cadere un’antica urna della dinastia Han. Le due foto che seguono mostrano la caduta. Nessun cavaliere la raccoglierà. E poi, in altre opere continua ad utilizzare reperti archeologici, ne deturpa l’integrità. Perché ricolorare vasi cinesi neolitici con vernice industriale o imprimere il logo della Coca Cola sopra un’urna della dinastia Han? Sono davvero gesti di consapevolezza riproposti attraverso il sentimento del contrario? Martirio per interposto corpo, il corpo dell’opera d’arte, del monumento? Denuncia? Sì. La società cinese attraversa lo stesso percorso di industrializzazione che ha vissuto l’occidente, solo che va più veloce. In Sardegna, negli anni detti della Rinascita, quando erano tarlate, si bruciavano le statue barocche in Estofado de oro e si sostituivano con statue nuove, comprate sui cataloghi parrocchiali.

Sussidiario

La porcellana è cinese per antonomasia. Nel XVIII secolo a causa dell’estendersi dell’uso di thè e caffè, tramite i mercanti olandesi che ne detennero il monopolio per molti tempo, se ne diffuse l’uso anche in Europa. Si dice che prima che venisse prodotta anche in occidente vi furono vari tentativi fallaci. I primi risultati di porcellana europea imperfetta ma accettabile si raggiunsero nei laboratori di alchimia medicea, nel XVI secolo.





In Free Speech Puzzle, i trentadue tasselli di porcellana dipinta a mano riproducono la suddivisione della Cina in province e riportano su ogni tassello la frase libertà di parola in ideogrammi. Imitano la tradizione di scrivere sui pendenti di vario materiale il nome della famiglia di appartenenza. Scrivere il proprio nome, marcare il territorio, affermare una presenza. Nel 2010 a Londra, anche Mark Wallinger ha taggato 2.265 muri realizzati nei classici mattoni con i quali sono costruiti, da secoli, gli edifici londinesi. La nuova urbanistica del grattacielo ha rotto una tradizione, ha separato la città dal fiume, dal fango da cui è sorta. Wollinger con un gessetto ha apposto la scritta MARK sul mattone di un edificio in aree differenti della città, un tentativo di appropriazione del muro, To mark, marcato. Ha scattato una foto ed è passato ad un altro muro. Un gioco di parole, un nome e il tentativo di reclamare fisicamente uno spazio, in una città dove la speculazione edilizia ha modificato totalmente l’identità di alcuni quartieri, espulso gli abitanti più fragili in una periferia sempre più distante dal centro. Appropriarsi dello spazio attraverso un gesto artistico è un’attività quasi primaria, come mangiare, bere, respirare; l’alternativa è la non appartenenza, un nomadismo imposto. Soprattutto dove il degrado è il risultato di amnesie volute, i mattoni rossi sono spesso usati per occludere finestre, porte di edifici abbandonati. Il convento di Sant’Orsola è un casermone grigio al centro di Firenze. Sulle mura esterne e sulle decorazioni alchemiche del degrado alcuni artisti realizzano mostre temporanee, segni di memoria. Sant’Orsola è una ferita esposta all’interno della quale si cercano i resti di Monna Lisa. Hanno trovato un dito. Realizzeranno un mausoleo? A Porto Ercole per Caravaggio hanno realizzato un sacrario dal gusto discutibile, la Canestra ambrosiana in non so quale materiale sopra un piedistallo al centro della corte di un caseggiato popolare. Ci parlano di futuro robotico, cibernetico eppure continuo ad imbattermi in oscuri presagi di decadenza, putrefazione, misticismo da tinello, scienza fai da te, storia così come mi pare. Intanto Monna Lisa riposa non si sa dove ma riposa (nella speranza che ci risparmino l'esposizione di altre dita).
Il vaso di fiori di Jan Van Huysum torna dopo settantacinque anni a Firenze.
 
Sussidiario
Jan van Huysum pittore di nature morte attivo in Olanda nel primo Settecento, noto per il virtuosismo nella descrizione dei particolari, si ipotizza utilizzasse lenti d’ingrandimento per studiare la natura e per dipingerla.
Il Vaso di fiori – soggetto prediletto dell’artista – fu acquistato nel 1824 dal Granduca Leopoldo II d’Asburgo-Lorena. Nel 1943 militari dell’esercito tedesco in ritirata trafugarono alcune casse di opere di Palazzo Pitti riparate fuori Firenze; le trasferirono in provincia di Bolzano, per prepararne la definitiva trasferta attraverso il Brennero. La cassa in cui si trovava il Vaso di Fiori di Palazzo Pitti venne aperta, e nel luglio 1944 un caporalmaggiore, che si era impossessato del quadro, spedì il dipinto come regalo alla moglie in Germania.
 
Poi dice che gli uomini hanno smesso di regalare fiori alle mogli.


Black is the color of my true love's hair
 
ARC

 

ATTRAVERSAMENTI

Sussidiario

Di recente ho trovato alcuni libri di viaggio, non li cercavo, mi sono venuti incontro. Trans Europa express e Annibale di Paolo Rumiz che non ho ancora letto e, Viaggi e altri viaggi di Antonio Tabucchi. Nei charity shop è facile imbattersi nei lasciti di eredità inattese. Cosa tenere dei libri di nonno o di zia? Buona parte finiscono nelle bancarelle dell’usato. Il mondo che ho visto di Mario Praz assieme a Virginia Woolf di Quentin Bell (che per me equivale ad un libro di viaggio) provengono da altrettante eredità casuali.
Io sono quell’affine che non ti aspettavi, prendo in consegna la tua eredità libraria non apprezzata. Un affido temporaneo, a suo tempo migrerà dalla mia verso un’altra libreria.

L’attesa del treno può essere noiosa. La mentalità diffidente che ha colonizzato il sentire sociale non ammette che ci si possa appisolare sulle scomode panche di una sala d’attesa (solo treni di lusso ammettono un’attesa intima, priva del guardiano sospettoso). La stanchezza del viaggiatore è ammessa in pochi casi, gli altri sono sottoposti al giudizio di un guardiano dallo sguardo diffidente, un dipendente vestito dei panni del secondino. E’ accaduto anni fa in certe stazioni: Milano, Roma, Firenze. Non ne so più tanto, oggi alcune di quelle stanze sono state trasformate in sala slot, negozi di souvenir. Appisolarsi sulla panca di una sala d’attesa faceva parte del pacchetto stazione, attesa del treno o di un amico. Ho sperimentato che al contrario questa diffidenza non fa parte del manuale del dipendente aeroportuale, che ha altre priorità. Superato il check-in non sei più estraneo alla struttura, puoi aprire il tuo sacco a pelo, puoi accamparti con la tua cucciolata come fossi sul tappeto del salotto di casa. Nessuno commenterà. E’ invece chiaro che la dimensione aperta della stazione ferroviaria non lo permette. In stazione sei sempre potenzialmente abusivo. La diffidenza ha colonizzato la nostra idea di sala d’attesa, piccolo salotto per accogliere te viaggiatore che transiti. Alla diffidenza spesso si associa l’idea che tu sia soltanto un consumatore, uno da imbonire per l’acquisto di chi sa quale affare del millennio. Bonifacio, Corsica. Sala d’attesa. Il traghetto per Santa Teresa ha un leggero ritardo, dalla colonnina di una postazione touch screen turistica proviene in loop, ad un volume altino, direi, Alleluia di Leonard Cohen nella versione un po’ stucchevole, sì, bella, ma stucchevole di Jeff Buckley. Provate ad ascoltarla per due o tre ore di seguito, la troverete diabetica. E’ passato qualche anno, posso raccontarlo. Ci siamo avvicinati alla colonnina, studiato l’utilità del video che andava in loop, niente di vitale per il viaggiatore e, abbiamo staccato la spina. Sì, l’abbiamo fatto, silenziato Jeff Buckley.
E’ una canzone che non posso più sentire senza ridere. I tecnici di quella colonnina pubblicitaria sono consapevoli di aver trasformato una ballad sentimentale e romantica in una battuta di spirito?

Sussidiario

 “Di solito le stazioni non si visitano, vi si transita. Un antropologo contemporaneo Marc Augé, le ha inserite, con gli aeroporti e i supermercati, nel suo libro Non luoghi, gli spazi architettonici della nostra epoca nei quali passiamo buona parte del nostro tempo ma dove viviamo una vita “sospesa”, perché sono spazi di uso e di passaggio, una sorta di limbi urbani. Nel saggio di Augé la stazione di Washington meriterebbe una postilla di eccezione: non è solo un luogo da cui arrivare e da cui partire, ma da visitare con soddisfazione per la bellezza architettonica” Antonio Tabucchi, Viaggi e altri viaggi




I musei si sa, oggi hanno dimensione colossali. E’ raro visitare un museo importante in poche ore, a patto che, in quanto visitatore avveduto, tu non decida quali sale e quali artisti vedere, rimandando ad un’altra visita altre sale, altri artisti. Questo non toglie che la stanchezza possa arrivare improvvisa. Quando un museo è una ex stazione ferroviaria, un velo di ironia si sostituisce al disagio. Dopo una mattinata passata alla Gare d’Orsay, è possibile sentire l’esigenza di sedersi sulle panche di quella sorta di balconata, che permette di osservare la navata centrale dove un tempo correvano i binari, lasciandosi cullare dal brusio dei visitatori, ipnotizzati dalle lancette dell’orologio, ancora al suo posto. Ci siamo addormentati. Al risveglio per conservare le nostre facce stravolte ho scattato delle foto (non avevo uno smartphone, quindi non si chiamano selfie). Foto alle nostre facce sfatte. Una in particolar modo mi è sempre piaciuta: sono io che sbaciucchio Roby ancora addormentato. Per anni quell’immagine l’ho appuntata al cappotto montata su una spilla.

La stazione di Washington di cui parla Tabucchi, non è l’unica meritevole di una visita, a mio parere a differenza di altri non luoghi come aeroporti e supermercati, le stazioni sono strutture architettoniche al confine tra modernità e surmodernità, non sono solo luoghi di transito, mantengono nella struttura e nell’uso motivi per cui le si può abitare e visitare. Gli aeroporti sono asettici come ospedali, i supermercati standardizzati dalle scatolette, le stazioni hanno storia. Alcune stazioni oggi sono musei, come la Gare d’Orsay, che pur nella sua nuova veste mantiene quel fascino dell’attesa, altre sono divenute iconiche per essere state soggetto di dipinti famosi, la Gare di Saint Lazar di Monet oppure, luoghi di fantasia letteraria, che per noi lettori di vite altrui divengono mitiche. Non tutte semplicemente si attraversano. Tabucchi ha detto una cosa vera, ci sono stazioni che meritano una visita, raccontano ben più di ciò che vediamo dal finestrino del treno. Tempio Pausania ha una deliziosa biglietteria in legno e merita una visita per i dipinti di Giuseppe Biasi. Edgware Road Tube Station di Londra ha una scala a chiocciola molto interessante, ma sono gli sportelli della biglietteria in ceramica che mi hanno ammaliato. E, che dire, di quel sali scendi da una stazione all’altra che è il museo diffuso della metropolitana di Napoli? Linea 1: Garibaldi, Università, Municipio, Toledo, Dante, Museo, Materdei, Salvator Rosa, Quattro Giornate, Vanvitelli e ritorno.








Low coast
A definire i tratti di una località a volte concorrono pochi elementi, in alcuni casi rappresentati da edifici storici, monumenti celebrativi, strade, il sentimento comune poi contribuisce a cristallizzarne l’immagine. Di Assisi la Basilica di San Francesco, di Pisa la torre, di Genova nell’immaginario c’è il porto. Per me Genova sin da bambina è stata anche l’altro capo di un filo emotivo che mi legava ad uno dei luoghi di mio padre, ma in generale un’idea di altrove dal sentore familiare. Certo, Genova è per un isolano la prima tappa verso il continente, il porto, le navi. A Genova quelli delle isole ci arrivano sempre dal mare, assonnati, stanchi con in bocca il sapore di un pessimo caffè e l’odore di nafta nelle narici. Genova raggiunta dalla terra ferma, dalla costa tirrenica, ha invece il profumo del corbezzolo e del lentisco, essenze nate dall’abbraccio tra Liguria e Toscana, già Mediterraneo; le voci hanno un’inflessione familiare, i suoni sono quasi isolani. Una linea invisibile unisce la terraferma con Bonifacio, Maddalena e per sentieri imprevisti del destino arrivano a Porto Torres.
Il nostro primo, per ora ultimo, viaggio con un autobus low coast ha avuto come destinazione proprio Genova. Con Roberto abbiamo vagabondato per la città vecchia, scesi alla darsena e passeggiato per l’angiporto, visitato la biosfera, risaliti verso il Duomo, visitato i palazzi della Genova rinascimentale, e in collina il museo d’arte orientale Chiossone. Da qui abbiamo ammirato la città dall’alto. Ho sentito la voce di Caproni...
Genova mia città intera. / Geranio. Polveriera. / Genova di ferro e aria, mia lavagna, arenaria. / Genova città pulita. / Brezza e luce in salita. Genova verticale, / vertigine, aria, scale. /Genova nera e bianca. / Cacumine. Distanza. Genova dove non vivo, / mio nome, sostantivo (…) Genova di Livorno, / partenza senza ritorno. / Genova tutta la vita, /mia litania infinita. (…)
Mi piacciono i micro mondi che sono le serre di ferro e vetro, i giardini botanici, le biosfere. Una biosfera mi riporta alla mente sempre Stephen King, che scrisse The Dome, la storia di una cittadina americana chiusa dentro una palla di vetro. Proseguiamo il vagabondaggio. Il caldo ci conduce infine di nuovo verso il mare al borgo di Boccadasse. Concludiamo una meravigliosa giornata low coast con un oste burbero e una birra eccezionale, sonnellino alla spiaggetta di sassi, neppure tanto scomodi, alla faccia del metodo Abramovic. Rientro a tarda notte, esperimento riuscito.
Quando i primi bus low coast hanno iniziato a percorrere le strade italiane, le compagnie, come era accaduto con i voli, vendettero biglietti a prezzi veramente bassi, stracciatissimi. Specchietti per le allodole. Noi abbiamo voluto provare a fare le allodole. All’inizio le tratte erano due o tre, ognuna toccava più città nell’arco di dodici ore. Abbiamo scelto la tratta Roma-Milano, siamo saliti a Pisa e scesi a Genova. Il difetto di questi viaggi è l’orario delle stazioni intermedie. Partenza da Pisa alle 5,30 del mattino, rientro alle 00,30 circa, tutto all’incredibile costo di 2 euro a persona.


Ho vissuto la maggior parte della mia vita a Porto Torres, l’antica Turris Libisonis. Ho sempre abitato a pochi metri dal porto, le sirene delle navi e le campane della chiesa erano la colonna sonora, l’odore di salmastro misto a nafta, il profumo. Ho sviluppato un imprinting verso le città portuali, la stessa attrazione riguarda le aree archeologiche. Da bambina vedevo le statue acefale dei magistrati della città romana, custodi silenti di un mondo lontano nell’androne del palazzo comunale. Tutto aveva un’aria familiare. La domenica mattina incontravo gli amichetti del coro in una delle basiliche romaniche più belle che conosca, San Gavino: doppia abside, una doppia teoria di colonne romane di spoglio, sarcofagi e frammenti dell’antica colonia. Illuminato dal sole proveniente da un portale gotico-catalano ci accoglieva un angelo barocco reggi acquasantiera, bellissimo. Le dita della mano invitavano all’abluzione: elegante posa degli angeli barocchi che avrei visto ancora anni avanti. E poi i resti della città, le terme, le strade, gli edifici. La mia prima gita scolastica, alle elementari, si svolse qui, in un’area chiamata Palazzo di re Barbaro. Immaginando fossero i resti del sontuoso palazzo del governatore della diocesi di Corsica e Sardegna, la fantasia popolare l’aveva definito così, in realtà si tratta di edifici termali tardo imperiali. Fu la prima volta che vidi mosaici antichi, di quella gita sono il ricordo più chiaro. Nelle vicinanze scorre il Rio Mannu, un fiume che nonostante il nome non è poi così “grande”, attraversato da un ponte romano a sette arcate; uno dei pochi, costruiti nel I secolo a.C., ancora integri. Per duemila anni ha sopportato il peso di carri carichi di merci, poi di camion e veicoli di ogni genere, fin quando negli anni ottanta fu chiuso al traffico.
Spesso qualche amico del continente chiede <<Cosa c’è di bello da vedere in Sardegna?>> Vorrei rispondere incamminati e scopri le rocce, i paesi franati, le gole di fiumi morti, l’odore dell’elicriso, del cisto marino, del lentisco. Senti la potenza di un territorio, come quanto arrivi al Dolmen di Sa Coveccada, solitario in mezzo alle greggi. Che vuoi di più? Hai visto Villaggio Nurra, i pozzi minerari dell’Argentiera? Sei entrato nell’ipogeo di Sant’Adrea Priu, a Santu Antine? Il nuraghe più bello. Hai guardato il mare da Punta Scomunica, dal Castellaccio? Sei entrato a San Gavino quando fuori ci sono 35 gradi? Una frescura odorosa di marmi umidi, cera fusa e incenso ti avvolge.
Tutte escursioni nei dintorni di casa, per assaporare qualcosa di misterioso e difficile da spiegare: un’idea, un sentimento. Ci sono piccole scoperte che si possono fare passeggiando a piedi in mezzo a quello che qualcuno definirebbe nulla, che nulla non è mai. Scansi un pianta ed ecco un ingresso ad una tomba a pozzetto neolitica, un sepolcreto scavato sulla roccia calcarea: Domus de Janas decorate con corna di toro. Su quello che era il tetto, un basolato di roccia calcarea, i romani, sfruttando la conformazione geologica, vi tracciarono parte di una strada, la Karales-Turris. Ne vedi il tracciato perché tra i cespugli sono ancora distinguibili un incrocio di solchi lasciati dai carro che la attraversano longitudinalmente, il prodotto di secoli e secoli di viaggi sulla roccia viva. Ancora oggi immagino i carri invisibili incamminati verso il mare, verso Turris Libisonis; continuano a percorrerla, trasportano grano per le navi annonarie, dirette a Ostia o aspettano per riceverne olive, olio, sardine da navi provenienti da Tarraco, oppure la percorrono all’inverso, verso Karales. In lontananza c’è un altare, una ziqqurat pre-nuragico, dalla cui sommità si vede il mare. In un’area modesta, ristretta a pochi chilometri, si sovrappongono cinque o seimila anni di storia.

Pisa, Museo delle navi
Osservando i mosaici del piazzale delle corporazioni di Ostia, attraverso le insegne si comprende il mondo commerciale romano, si avverte la potenza. Gli uffici commerciali di rappresentanza dei navicolari circondano un vasto foro occupato ad una estremità dal teatro e al centro il tempio di Cerere. C’è anche l’ufficio dei Naviculari Turritani, segnato come gli altri dal suo personale mosaico identificativo: una nave. Gira che ti rigira torno sempre a Turris.

Le pietre e l’acqua

Tra Siena e Grosseto in un’era geologica lontana eruttavano i vulcani. Questo è il territorio di caccia dei nostri percorsi alla ricerca di vasche termali. Amiata solforosa. Birra buona anche da queste parti. Aree boschive e selvagge, luoghi sacri ai margini di una fonte d’acqua termale. Nelle vicinanze, c’è sempre un rudere di epoca romana, c’è sempre una chiesetta romanica dedicata ad un santo guaritore. All’acqua termale campestre mi hanno introdotto Marcello e Igor. Ho scoperto che non sono poche le vasche termali nella piatta campagna o nei boschi, tra resti di terme romane, di ville agricole o chiese medioevali. La mia prima esperienza è stata in Sardegna a San Saturnino, Benetutti. Nomen omen. Una vasca di pietra cinta da cespugli di macchia -per la privacy- tra indifferenti mucche e cavalli. Un ramo appositamente modificato per appendere l’accappatoio e sedili di pietra per l’attesa. La regola non scritta di convivenza civile dice di immergersi tra i fumi solforosi per non più di venti minuti e cedere il posto al successivo in fila. Si può incontrare qualche vecchietto con il suo accappatoio, ma di solito il silenzio è rotto soltanto da qualche muggito, niente di più. Se devo fare un confronto con la Toscana, sicuramente fa la differenza la densità abitativa, così come il numero dei turisti che in Sardegna affollano più facilmente le coste e, sicuramente le abitudini dei locali. La solitudine rurale di Benetutti, l’abbiamo potuta godere soltanto a Sasso Pisano, tra le vasche naturali di un fiumiciattolo adiacente un’area archeologica, i resti di un edificio termale romano. Area di fumarole. Qui si trovano i resti delle uniche terme etrusche-sacre rinvenute. E’ stato sicuramente un caso fortuito che non ci fosse nessuno, le vasche sono piccole. Sicuramente non hanno la stessa fama di altri luoghi e neppure la scenografica presenza, ma noi le abbiamo trovate deliziose. Isolato è il complesso di San Michele alle Formiche. Le vasche sono ricavate all’interno di edifici oramai fatiscenti, non ci siamo immersi, troppo pericoloso e poco igienico, ma il bosco è affasciante. Gli abitanti della zona - a pochi chilometri c’è Pomarance- accompagnati dal cane, seggiola e libro qui possono godere di uno scenario meraviglioso.

Ho saputo di recente che verrà sistemata l’area delle terme del Petriolo, gli antichi edifici medievali saranno sottoposti a restauro e parte del bosco ad un intervento di ripristino ambientale. E’ un posto molto affascinante, come molti di questi luoghi, una cascatella di acqua sulfurea cade verso il basso in vasche e vaschette fino a raggiungere un fiume di acqua fredda. La temperatura diminuisce dall’altro verso il basso. A San Filippo, in Val d’Orcia, invece si fanno anche begli incontri. La mia amica Alba non sarebbe d’accordo. Il luogo è molto conosciuto, la zona è tra le più turistiche della Toscana. Nelle vasche della parte alta del bosco si può condividere lo spazio con le persone delle vasche vicine e conversare, man mano che si scende nella parte bassa i visitatori sono un po’ più chiassosi, l’ambiente attira di più famiglie e gruppi di gitanti, è qui che si trova l’incrostazione calcarea conosciuta come la Balena bianca. La prima volta che andammo a San Filippo fu dopo un temporale notturno, conclusosi all’alba. C’erano pochissime persone, probabilmente quelli che alloggiavano nei dintorni. In memoria di quella prima volta tornammo l’anno dopo, e ancora dopo. Ovviamente ogni volta troviamo un bosco differente che non ci ha mai deluso.
L’esperienza termale più folle è stata alla cascata di Saturnia. Ho scattato qualche foto. Inverosimile. Avete presente le piscine con i giochi d’acqua, i toboga? Siamo stati bene non dico di no, per me è stata la solita esperienza di coinvolgimento antropologico, come nelle file alle mostre o in attesa di un imbarco. Ci siamo immersi in vari punti per sentire le conversazioni dei vicini, capire che tipo di fauna frequenti questi posti in piena estate. Famiglie e turisti di ogni dove, ma dentro la fanga o sotto la cascata sulfurea potevi trovare tizi pieni di catene e bracciali d’oro accompagnati da ragazze che indossavano bichini leopardati.

L’isola di Ercole

La prima volta che ho messo piede sull’isola di Ercole, quello che ho visto aveva la tristezza di una disfatta. Era un giorno piovoso di fine inverno, la primavera era alle porte ma il cielo era ancora plumbeo, la terra umida. Gli animali prima domestici ora disorientati dalla rinnovata selvaticità ci ignoravano o al massimo ci passavano accanto annoiati. Alcuni cavalli che riconoscevano la sagoma del fuoristrada della forestale si avvicinavano, i più spavaldi mettevano la testa all’interno dell’abitacolo riconoscendo l'uomo alla guida. Un buffetto e un gesto affettuoso tra vecchi amici. Le mucche sostavano placide sulla spiaggia, adagiate sui soffici materassi di posidonia, la paglia del mare. La spiaggia era stata trasformata nella stalla di Poseidone, concimata a dovere rifioriva di gigli, aglio marino, tamerici. I primi edifici che incontrammo dopo il carcere erano case basse, avevano finestre e porte spalancate, oggetti domestici e familiari si trovavano sparsi all’interno e nei cortili; una scarpa qua, una stoviglia là, un triciclo, qualche abito, forse già utilizzato come strofinaccio. In cucina un nuovo inquilino ruminava un bolo di erba fresca, ci guardò perplesso, forse annoiato: <<Thè o caffè, ho finito lo zucchero, va bene un po’ di latte?>> Nessuno rispose e l’asinello continuò a ruminare il suo bolo.
Era da poco terminata la guerra in Jugoslavia, certe immagini di sfollamento, di abbandono e miseria permanevano ancora chiare sulle mie retine. Sapevo bene che nessuno aveva cacciato povere famiglie, nessuno perseguitava nessuno, nessuno scappava dalla morte. Semplicemente era stato chiuso un carcere e un’isola era tornata a vita civile. Spesso certe scelte vengono viste come un affronto alla propria mal interpretata idea di libertà. Chi aveva lavorato per la colonia penale soffriva l’idea di lasciarla, così avevano staccato dalle pareti gli interruttori e le prese di corrente, danneggiato gli scaldabagni, lasciato le porte delle case spalancate nella speranza che gli animali entrassero e completassero l’opera defecando qua e là. Sulle garitte di vetro antiproiettile erano visibili gli sfregi di sventagliate di mitra. Solo gli edifici di detenzione, gli uffici erano ben chiusi e protetti.
La prima cosa che colpisce, sempre, ogni volta è il profumo della macchia mista a stallatico e salsedine, il residuo delle mareggiate in putrefazione e i fiori di cisto. Ogni stagione ha i suoi profumi, ogni stagione ti rapisce l’anima. L’elicriso battuto dai venti a occidente, la posidonia sulle spiagge ad oriente, i fiori di cisto a primavera, il cisto secco ad agosto. L’unico rumore della civiltà il motore delle auto. Qualche pernice attraversò la strada. Prima di arrivare a Cala Sant’Andrea, ci fermammo lungo una curva, guardammo dall’alto un angolo di bellezza indescrivibile. Sulla spiaggia godeva di quel paradiso un altro gregge di mucche, divenute orami le ancelle di Poseidone. Le più sfacciate faceva il pediluvio, le altre, come quelle di Fornelli, si rilassavano sulla sabbia candida. I cavalli correvano sulle retro dune dove un piccolo stagno permetteva loro di abbeverarsi. Di soliti all’alba quando si sentono protetti scendono dalle colline rocciose mufloni e mufle. Non ne vedemmo. I cinghiali invece scorrazzavano tranquilli, una madre con i cuccioli correva parallela alla strada, i più coraggiosi tra i maschi nuotavano verso gli scogli di granito per cacciare qualche uova di gabbiano. Gli asinelli bianchi e grigi si trovavano a gruppi o a coppie vicino agli edifici. Negli stagni un airone cinerino, un cavaliere d’Italia, folaghe, un vai e vieni di leggerezza piumata. Il Parco è ancora informe, ma è già visibile cosà potrà diventare.


  
A Cala d’Oliva si percepiva ancora un sentore di vita comunitaria, alcune guardie, operai della forestale, operai di linee telefoniche ed elettriche vivevano qui: chi stabilmente, chi per brevi periodi, chi andava via in giornata. Le case civili, diciamo “rurali”, delle diramazioni distanti dal paese sembravano resti di un attacco vandalico, qui tutto appariva dimesso, ma ordinato. Un paese simile a quelli della costa ligure, riadattato ad un immaginario greco, tutto bianco con porte e finestre azzurre, un villaggio mediterraneo come un altro, ma vuoto di vita. Proseguendo sulla strada che dal molo di Fornelli porta fino a Cala d’Oliva, un’unica strada in cemento, trovammo una dietro l’altra le diramazioni carcerarie, gli edifici dell’antico lazzaretto, ospedali, docce, farmacie, chiesette in cemento in stile altoatesino, uno ossario, cantine, stalle, caseifici, frutteti. Un mondo fatto di reclusione e lavoro agricolo, detenzione e pastorizia, solitudine e speranza. Ci sarebbe voluto ancora parecchio lavoro, ma a breve il carcere sarebbe stato solo l’ennesima area archeologica, un luogo per turisti. Sono passati vent’anni da quel giorno. Ci sono tornata più e più volte, ho accompagnato turisti in visita, ho percorso i sentieri per conoscerla meglio, mi sono arrampicata sulle sue alture, entrata negli edifici, percorso la sua strada in auto, autobus, bicicletta, a piedi ma questo è il ricordo che ancora riaffiora alla memoria quando penso all’Asinara. I profumi, i colori, i suoni sono ancora quelli, tutte le altre volte, anche quando per qualche anno ho fatto la guida al Parco Nazionale, sono state una variante e un’integrazione.

Piombino Express

Il tempo ha esercitato una benevola azione anestetica sulla nostra memoria, una giusta dose di amnesia si è depositata sul ricordo di quella famigerata escursione da noi soprannominata Piombino Express. Cancellata la fatica e la sete, oggi può fare parte, a buon diritto, dei micro-viaggi da raccontare, perché il luogo merita di essere visitato.
Sulla costa livornese non è semplice trovare una natura non addomesticata, soprattutto non sfruttata in funzione del guadagno. Verso l’interno, sulle colline alcuni sentieri conducono a boschi e antichi eremi; da alcuni punti panoramici si può vedere anche il mare e le isole dell’arcipelago. Sulla costa, soprattutto in prossimità dei centri abitati, tranne poche eccezioni, strutture di ogni tipo impediscono la visione di un aperto orizzonte. Interventi architettonici di epoche diverse penetrano fin dentro il mare, appendici decadenti un tempo lussuose, oggi alberghi, ristoranti, strutture balneari o ammassi di cemento. Scalette arrivano direttamente sulla costa rocciosa, in moli e moletti di cemento.
Guardiamo dall’altro il golfo di Baratti, un momento di sollievo.
Tre estati fa, alla ricerca di qualcosa che assomigliasse alla selva abbiamo deciso di percorrere il sentiero dei Cavalleggeri da Piombino a Populonia. Un percorso ad anello attorno alla cresta del promontorio di Piombino. Il sentiero parte da Cala Moresca, la via del Crinale, e si sviluppa in maniera piana e rettilinea, ad un certo punto, più o meno a metà, si arriva ad un edificio religioso, la chiesa di San Quirico, di qui si prosegue fino ad un bivio: da una parte c’è la strada per Populonia, dall’altra scendendo lungo un sentiero nel bosco si arriva ad un punto di sosta, una necropoli e una spiaggia di sassi, la Buca delle Fate. Dopo un pranzo al sacco e il bagnetto alla Buca si può dire sia iniziata la vera escursione.
Quel giorno, una parte del sentiero dei Cavalleggeri era impraticabile, abbiamo dovuto optare per la via interna e ricongiungerci al sentiero dopo aver percorso di alcuni chilometri all’interno del bosco. Il sentiero è piuttosto stretto e a tratti scivoloso, salite e discese tra le radici degli alberi, pozze di fango, ci hanno sfiancato; la pelle salata, l’umido e una riserva d’acqua che si faceva sempre più misera non hanno aiutato. E’ divertente ricordarlo ora, ma la lingua felpata, la pelle sudata, impolverata e salata al momento non era affatto divertente. Usciti dal bosco, a punta Galera abbiamo ripreso il sentiero dei Cavalleggeri e ci si è aperto il mare azzurro, il profumo di salmastro, la luce del sole. Forse agosto non è il mese migliore, ma io le escursioni le ho sempre fatte così.

Sussidiario

Percorso: Sentiero dei Cavalleggeri Piombino-Baratti e ritorno.
Via del Crinale, itinerario pedonale, ciclabile e a cavallo per tutto il tracciato. Lunghezza: 6,6 km - h.2.10 quota massima 270 m slm, nella parte centrale dell’itinerario, minima 31 m slm a Cala Moresca.
Buca delle fate itinerario pedonale lunghezza 1,5 km – h.0,20
Via di San Quirico itinerario pedonale e ciclabile. Lunghezza 4 km – 1,20
Via dei Cavalleggeri solo pedonale al punto Galera, oltre fino a Cala Moresca anche itinerario ciclabile. Lunghezza 10km – h 3,20
Il bosco di San Francesco ad Assisi è stato al contrario una rivelazione, non solo una camminata, ma una vera scoperta. Un percorso di qualche ora. Anche qui salite, discese, sudate e sete, ma meno sfiancante. Non avevo idea che addossato alla collina, dalla parte opposta alla basilica, ci fosse un bosco che si estende in discesa per 64 ettari fino ad una valle. Per accedere al bosco si entra da una porta lungo il muro che delimita la piazza. E’ un’area recuperata dal FAI nel 2008, quindi c’è un’accoglienza, un piccolo book shop e l’occasione di fare una donazione per il mantenimento dell’area, una sorta di biglietto. Dopo aver camminato per qualche ora, siamo arrivati ad una vallata aperta, dove sono visibili una chiesa e i resti di un monastero benedettino, la struttura di un mulino, una torre, un opificio e un oliveto, il tutto attraversato dal letto di un torrente, ad agosto assolutamente arido. Abbiamo incontrato parecchie persone che passavano al fresco di un afoso pomeriggio, ragazzini in gita, famiglie che facevano un picnic, camminanti come noi o semplici automobilisti in sosta per un caffè al ristorante. Nel fondovalle a regalare una piacevole sosta sono proprio i campi coltivati, gli oliveti e nella radura solitaria la torre dell’antico opificio da cui si può vedere chiaramente il Terzo Paradiso, una struttura dell’infinito a tre anelli, ottenuto tramite la piantumazione di qualche centinaio di alberi di ulivo, opera di Land Art realizzata qualche anno fa da Michelangelo Pistoletto.




Arcipelaghi

Rileggendo le pagine, mi accorgo che scrivo di cose di cui ho già scritto, parlo di cose di cui ho già parlato. E’ vero, alcuni incontri casuali si sono rivelati connessi ad aspetti della mia vita passata o desideri di quella presente, ma immagino dipenda dal fatto che tendo a muovermi in territori affini, spesso torno dove sono già stata perché so che qualcosa mi è sfuggito. Dato che faccio spesso la fila per una mostra o un museo, osservo i miei vicini, ascolto i commenti, cerco di percepire il clima.

- Scusi, dov’è la donna nella cozza?

- Quale donna nella cozza?

- Quella famosa, di quel pittore... lavora qui e, non la conosce? Come vi assumono a voi?

- Forse cerca La nascita di Venere di Botticelli?

- Ah! Sì, quella.

- Sono spiacente, non si trova in questo palazzo, la può vedere agli Uffizi.

Immagino la soddisfazione dell’addetto alla guardiania di Palazzo Pitti nel pronunciare le parole “non si trova in questo palazzo”. Non so trattenermi. Il grottesco si fissa sui polpastrelli, ripulisco il testo ma certe cose non posso cancellarle. Sarà lo sguardo vacuo del turista che fa selfie, per cui un contenitore vale l’altro, un contenuto vale l’altro, tuttavia certe frasi si appiccicano e non si staccano più. La cozza? Va beh! Quando Alba me l’ha raccontata sembrava un aneddoto inventato, la battuta di un comico. Tutto vero, sentito con le sue orecchie. Mi è dispiaciuto non averla sentita con le mie, a volte sono costretta ad apprendere per interposta persona. Intanto entriamo in una sala di palazzo Pitti e troviamo Maria Lai. Qualche studente asiatico si sofferma, gli altri, di solito quelli che hanno smarrito la strada, scappano via. Roba moderna, dice lui o lei, è uguale. Cercano il Rinascimento ma continuano a incappare nel loro personale neo-medioevo.
Legarsi alla montagna è spesso citato come una sorta di mito di fondazione dell’arte partecipata in Italia. Maria Lai una irregolare. Il video di Tonino Casula Legare collegare dà a questa mostra una spinta in avanti, lo colloca in un preciso contesto artistico, quello della Sardegna tra anni settanta e ottanta; una provincia distante nella quale si sperimentava pienamente connessi con ciò che avveniva nel resto del mondo. Il paese di Ulassai è attualmente una museo aperto, un luogo dove quell’esperienza ha dato frutti. Non è un posto in cui puoi capitare per caso, non appartiene alla categoria dei paesi che attraversi per andare in una città vicina o in un paese più grande. Quelli si assomigliano tutti, hanno una strada al centro, caseggiati bassi, negozietto di alimentari, scuola, qualche aiuola e alla fine o all’inizio il cimitero. Persino in Toscana, certi paesi di provincia mi pare di conoscerli anche se non ci sono mai stata. A Ulassai ci vai perché ci vuoi andare. Per strada puoi contare sulle dita di una mano le auto che ti vengono incontro. Questa è una zona della Sardegna poco popolata, le montagne e il paesaggio tolgono il fiato.
Ci andammo qualche estate fa. Si arriva superato Gairo.

- Quella è Gairo vecchia, è un paese disabitato. Dopo una frana è stata evacuata e ricostruita ex novo.

- Dove sono le biramidi?

- Quali piramidi?

- Le biramidi del Gairo?

- ah ah ah ah ah

Il tenore delle battute era di questo tipo. Una gita. C’era nell’aria una specie di euforia. Abbiamo cantato e detto sciocchezze per tutto il viaggio.
Riconosco le cose quando terminano. Il viaggio ad Ulassai è stata l’ultimo di un modo di guardare le cose, poi i viaggi sono stati un’altra cosa. Nei rapporti con alcuni amici, immagino di non aver colto certi segnali, capito alcune cose che forse erano già presenti da tempo, andavano semplicemente illuminati.
Una volta, in uno di questi viaggi impossibili alla ricerca di luoghi inesistenti, isole fantasma che improvvisamente compaiono alla vista, abbiamo vissuto episodi Ai confini della realtà. Quegli spostamenti che ti fanno attraversare la Sardegna da parte a parte e immaginare mondi, in uno di quei viaggi, subito fuori un centro abitato abbiamo visto una donna anziana vestita di nero, mucadore e fardetta, come se ne vedono nei nostri paesi, pollice alzato. Faceva l’autostop. Ci siamo fermate.

- Grazie, ho perso la corriera. Per fortuna siete passate voi.

- Dove è diretta?

- Ad Ales. Vado al patronato.

Non passavano molte macchine, forse neppure la corriera. Ales il paese di Emilio Lussu, il successivo sulla linea del nostro percorso a tappe forzate.
Dopo averla lasciata a destinazione scoppiammo a ridere come due sceme. Josephine aveva lasciato la sua borsetta nel sedile dietro, bella spalancata, con parte del contenuto sparso sul sedile, non dicemmo niente, ma in quei dieci minuti di tragitto entrambe ci facemmo un film. La stessa scena grottesca.
- Ho pensato: ora toglie un fucile da sotto la gonna e grida <<questa è una rapina!>> ah ahh ahhh
- Seee, figurati se ha perso la corriera, è un metodo, lo farà sempre. E’ una specie di Bonnie della Marmilla! Ah ah ahhhh adesso ci farà fuori e non ci troverà più nessuno! Ah ahahhahh
La circostanza era veramente tipo Ai confine della realtà. Dopo averla lasciata al patronato, per chilometri non incrociammo nessuno. Era una vecchia signora di paese, molto cordiale. In quei dieci minuti ci raccontò una vita di fatica e sopportazione. Non ricordo i dettagli della storia, ma era di quelle di altri tempi. Vederla sbucare dietro la curva con il pollice sollevato in fardetta e mucadore è stato divertente, divertente parlaci. L’inatteso di un viaggio che poteva rivelarsi banale. Gli incontri casuali non esistono.
Viaggio a Ghilarza, visita alla casa di Gramsci. Colonna sonora i Clash. Non ricordo i dettagli del viaggio. Che cantai a squarcia gola London Calling, ne sono certa. Roberto, Marco e io in una macchina Josephine e Tore un un’altra. Della casa di Gramsci mi colpì il minuscolo cortile. Ricordo la birretta in un bar per arrestare l’afa agostana. Ci siamo tornate altre volte. Ricordo, una volta era inverno, nevicava, c’erano anche Caterina e Gianfranco.
Le case delle donne o degli uomini illustri della Sardegna, fatta eccezione baroni e viceré, sono sempre molto dimesse. La casa di Mario Delitala a Orani mi colpì per la sua modestia. La casa di Grazia Deledda è in un certo senso severa, se paragonata alle case moderne, ma padronale, la casa di Orani no. Non saprei dove vivesse l’altro illustre oranese, Costantino Nivola, ma la sua presenza è ovunque. Anche il nome, Antine aleggia sopra il cielo della Sardegna. Costantino è un santo anomalo. E’ un santo che non è un santo, lo è sua madre Elena, lui è una concessione alla santità tutta sarda. Antine è il santo dei cavalli, delle giostre, delle pariglie, dei cavalieri. E’ il santo imperatore.
ARC

mercoledì 13 novembre 2019

MOSTRI (una biografia)

A Cindy Book è un breve romanzo visivo sulla vita di Cindy Sherman, una raccolta di foto familiari sulle quali con un pennarello ha cerchiato la sua immagine (perché fosse riconoscibile tra quelle dei familiari e amici) e sotto ogni foto ha posto la didascalia "Thats me". Un chiaro segnale del bisogno di rappresentazione di sé focalizzato sul tema dell’identità, che segnerà il suo lavoro futuro. L'opera mostra chiaramente tutti quelli che saranno gli elementi di ambiguità tra realtà e finzione utilizzati al fine di creare un mondo immaginario nel quale lo spettatore può riconoscersi. Le opere della giovinezza sono quelle che raramente ho visto, alcune non le conoscevo proprio. Minimali, imperfette. Mi è piaciuta l'idea del diario in formato video.


 


 


 

Sussidiario
Mostro: persona che possiede determinate caratteristiche in positivo o in negativo. Prodigio, portento, persona eccelsa nella propria attività o chi si è macchiato di crimini efferati. Segno degli dei. Persona brutta e deforme. Essere umano o animale di conformazione fisica anormale. Creatura fantastica di aspetto orribile e spaventoso. Participio passato di mostrare.



 


Mi sono data alla lettura dei libri illustrati, graphic novel, graphic biography. Autobiografie, diari di viaggio, diari di guerra, drammi, commedie, l'offerta è varia. Quest'estate alla House of Illustration ho visto una retrospettiva di Posy Simmonds, non la conoscevo. Quella particolare commistione tra testo e illustrazione, dove il testo non  è necessariamente all'interno dei baloon, mi ha colpito molto. Per alcuni scrive troppo testo, io non sono d'accordo. Mi è capitato di leggere libri illustrati molto belli ma sono rimasta delusa dalla narrazione povera, spesso ridotta ad una didascalia. Molte delle sue pubblicazioni nascono a puntate sui quotidiani, come i tradizionali feuilleton ottocenteschi. Lo scorso natale ha pubblicato Cassandra Darke, la storia dickensiana di una terribile gallerista londinese. Aspetto con ansia l'uscita italiana. Dramma o tragedia, commedia o farsa purché il libro non sia un resoconto didascalico finalizzato a sostenere una bella illustrazione.
Di recente è uscita in libreria la storia illustrata FRANCIS BACON La violenza di una rosa, di Cristina Portolano. Quello che cercavo in questo libro è ciò che Bacon definiva il “senso ininterrotto della mortalità”, ovvero un senso di minaccia e una continua angoscia, la frustrazione dell'individuo di fronte al futuro che ha davanti a sé. Ho trovato interessante la scelta come guida narrativa della figurina biomorfica di Bacon; l’impaginazione grafica e le illustrazioni sono molto belle, ma non riesco ad appassionarmi al racconto, nella storia non ho trovato la tensione che cercavo. Mi aspettavo sul serio di venire travolta dal “senso ininterrotto di mortalità”. E' un bel libro ma non è quello che volevo leggere.
Sfoglio gli appunti, ricontrollo le foto della mostre viste ultimamente, ecco Francis Bacon.




 




Finché ne ho avuto la possibilità, ho fatto il mio piccolo pellegrinaggio davanti a questo capolavoro, mi sono fermata nella stanza rotonda della Tate a guardare Tree Studies for Figures at the Base of a Crocifission (1944).
Il 1944 fu l’anno delle V1 e V2, quando vivere a Londra voleva dire sentire ogni ora del giorno e della notte il suono delle esplosioni. Quello è l’anno in cui concluse Three Studies e dove è riuscito a rendere crudeli le figure biomorfiche picassiane e tragico l’arancione.
Nella biografia illustrata cercavo la figura tragica che Bacon è stato. Non l'ho trovata.
Prima che Lucca venga invasa dai cosplayers andiamo a vedere la mostra di Emil Ferris, caso editoriale dell’anno, La mia cosa preferita sono i MOSTRI, la sua opera prima. Emil Ferris è una illustratrice di Chicago che all’età di 55 anni ha pubblicato la sua prima graphic novel. E’ stata illustratrice e modellatrice di giocattoli, poi qualche anno fa - a dispetto di chi ha paura dei lupi, degli orsi e degli squali - è stata aggredita da un animale pericolosissimo, per quanto piccolissimo, una zanzara. L'insetto molesto le ha trasmesso la “febbre del Nilo occidentale”. Paralizzate le gambe e la mano destra ha dovuto reinventarsi una vita e imparare di nuovo a disegnare. Il lavoro è stato travagliato, le ha impegnato tempo e fatica, la sua realizzazione e distribuzione è stata un’odissea (i libri già stampati e pronti per la distribuzione sono stati sequestrati nel porto di Panama perché l’impresa cinese, che li aveva prodotti, nel frattempo era fallita) ma ce l’ha fatta. E’ appena uscita in lingua inglese anche la seconda parte, speriamo Bao la traduca il prima possibile. 
 




La mia cosa preferita sono i MOSTRI rappresenta un nuovo approccio al racconto per immagini, quella commistione testo-immagini che tanto mi è piaciuto in Posy Simmonds, con in più una forte carica drammatica punk. La protagonista è Karen Keyes, una bambina di undici anni, nella Chicago violenta e razzista degli anni Sessanta. “Mama è per metà irlandese degli Appalachi e in parte indiana americana di…chi-sa-dove… si definisce zingara fricchettona…”. Il 14 febbraio 1968 la sua vicina, la signora Anka Silverberg viene trovata morta in circostanze misteriose: colpita al cuore il giorno di San Valentino. Si immagina detective e inizia un'avventura tra cose nascoste, segreti, bullismo, razzismo. Karen è diversa, ne è cosciente. Per sfuggire ad una realtà terrificante si identifica con un licantropo e questa fantasia le permette di rifugiarsi in un mondo fittizio, entrare fisicamente dentro i quadri dell'Istituto d’Arte di Chicago. Vive esperienze che spesso non comprende, rimuove la violenza attraverso la fantasia, conversa con figure a volte reali, a volte immaginarie. I suoi amici sono Missy una ragazzina di cui è innamorata, ingabbiata nel conformismo della sua famiglia e delle amiche "giuste", Franklin un trans afroamericano pieno di cicatrici e Sandy una bambina, che gli altri forse non vedono e, che “dà degli abbracci gelidi”, ha sempre fame, “assomiglia tanto ad un artista che si chiama Andy Warhol di cui Deeze ha una foto appesa in camera. Andy Wharol dipingeva lattine di zuppa e Sandy dice di adorare la zuppa”.
  


 


Progettato come un diario (non c’è una divisione degli spazi da classico albo) è disegnato esclusivamente su fogli a righe, ad anelli, testo e disegni sono strettamente combinati tra loro, tracciati con un segno finissimo a penna a sfera, il pennarello è utilizzato di rado, più che altro per titoli e alcuni testi. Ad intervallare la storia sono le riproduzioni dei fumetti dell’orrore che suo fratello Deeze le regala ogni mese e lei riproduce per imparare a disegnare, mentre i dipinti barocchi e romantici del Museo rappresentano finestre verso l’altrove, liberazione dall’inquietudine quotidiana, luoghi di riflessione, conoscenza e ispirazione.
  
Anche Andy Wharol è stato un piccolo mostro a Pittsburgh. Sandy, il suo alter ego affamato è un bel gesto d'affetto che Emil Ferris fà all'artista. Un atto d'amore è anche ANDY La vita e le avventure di Andy Warhol, di Typex. Dieci capitoli: dall’infanzia vissuta nella città industriale di Pittsburgh alla morte, nel 1987.


 

Dieci differenti stili per ogni periodo saliente e distintivo della sua carriera, ogni capitolo una copertina autonoma che riprende lo stile dello stesso Warhol in quel momento della storia. I personaggi sono introdotti da brevi biografie impaginate in formato figurina da collezione, con tanto di linea tratteggiata prestampata. I capitoli dedicati all’infanzia si rifanno allo stile delle tavole domenicali dei fumetti degli anni Trenta e Quaranta, gli anni cinquanta sono ispirati allo stile di Wharol pubblicitario, seguono i colori piatti delle serigrafie e le copertine di Interview fino al 1987, quando in una sorta di regressione il segno ritorna quello dei fumetti dell’infanzia. Il volume è un tributo alla personalità folle di Andy: dall’infanzia difficile, alla fama, al successo.

 
Per Andy e Karen, i personaggi delle storie sono veri quanto le persone reali, condividono la propensione alla fuga nel mondo dell’immaginario, nei fumetti e nell’arte. Entrambi ad un certo punto attraversano lo specchio, entrano fisicamente nel mondo dei propri eroi e da essi traggono l'energia su cui contare per vivere in un mondo difficile.
ARC