
Dal
2012 è il vicepresidente di Carico Massimo.
Interessato alla
complessità del visivo, alle relazioni umane, alla narrazione indirizza il suo lavoro verso il racconto del tempo
in cui vive. Non privilegia nessuna pratica in particolare, pur mantenendo
verso il cinema, la narrazione e la video arte una particolare attenzione.
Ci incontriamo agli Ex Magazzini Generali di Livorno, dove ci
siamo conosciuti e, dove dal 2012 ha sede Carico Massimo, un contenitore d’arte
contemporanea, un collettivo di artisti, critici, collezionisti.
A.R.C. Partiamo dal racconto cinematografico. Come è iniziato
quest’esperienza?
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Viva il tifo! |
G.M.
E’ iniziato con una passione smodata per il cinema, perché racchiude in sé una
serie di forme: l’immagine, il racconto, la parola, spesso la musica, mi piace
perché ha un linguaggio complesso.
Poi essendo io legato
all’immagine, al visivo ho provato a sintetizzare quelle immagini che avevo in
mente e, c’è stato un momento che sono passato dal diacronico al sincronico, riempiendo
queste immagini di narrazione.
La mia è una formazione
basata sul racconto, ho studiato cinema, quindi tutto parte dal racconto. Che
mi occupi di arte diacronica, che mi occupi di arte sincronica, comunque tendo
a raccontare qualcosa, raccontare il tempo in cui vivo. Che non vuol dire la
contemporaneità ma il tempo come frutto di quello che è successo. Il passato
come attimo prima del futuro, il presente come ciò che è accaduto come
immediatamente dopo il passato. Questo mi interessa, raccontare delle storie.
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Opera effimera |
A.R.C. Come è avvenuto questo passaggio?
G.M. Ho iniziato col cinema a sedici anni, con lo studio e una visione
continua di film. Lo studio non mi bastava e ho iniziato a sperimentarmi, mi
interessava sperimentare. Da lì sono nati una serie di cortometraggi. Poi c’è
stato il film realizzato a Turi con i detenuti del carcere di Turi, il film su
Gramsci.
Ho sempre realizzato
delle micro installazioni che tenevo per me, non c’è mai stato un vero
passaggio. Ho sempre lavorato su più livelli. In realtà il cinema è una
macchina complessa, ha necessità di molti soldi e molte persone. Non mi
interessa più tutto questo, ora ho voglia di lavorare in un’altra forma.
Continuo a realizzare video. Sto realizzando un progetto che prevede un lavoro di rimontaggio di una serie di film che verranno utilizzati come visual.
G.M.
Si intitola “Gramsci, film in forma di rosa”, 2005.
Mi interessava lavorare
sulle lettere dal carcere, per una ragione semplicissima, mentre i quaderni,
pur scritti all’interno di una cella, con tutte le difficoltà del caso, prevedevano
una lettura meno intima, le lettere sono un fatto intimo. Scrive alla moglie,
scrive alla cognata e nonostante ciò sono cariche di bellezza.
In genere quando si
scrive, si pensa ad un pubblico, si riempie di una bellezza affettata il
racconto, lì è naturale.
Mi è piaciuto lavorare su
queste lettere, lavorare nel posto che l’ha visto detenuto. Mi interessava l’idea di
giocare un po’ con i luoghi comuni, il cinema come evasione.
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Identità di carta |
G.M. In realtà volevo capire quanto fossero cambiate certe condizioni di vita
all’interno del carcere. Io ho una cultura molto libertaria e anti repressiva.
Una società che contempla ancora il carcere è lontana da una società che ha
raggiunto un discreto livello di civiltà. In qualche modo gli ho aiutati ad
uscire, i loro volti hanno girato l’Italia, sono stati in Brasile. In seconda
battura capire se quelle lettere, ancora oggi, per un detenuto hanno un senso.
Per il resto è un
esperimento di video arte. Ho cercato di raccontare la contemporaneità di
Gramsci attraverso la forma, dalla fotografia alla musica, non attraverso il
contenuto. E’ un film su Gramsci che ha i Sigur Ròs come colonna sonora.
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Colin Darke, Gli dei partono, installazione, 2012, dettaglio foto Carico Massimo |
A.R.C. Dove possiamo vedere il film?
G.M.
Il film si trova ancora in qualche bancarella, mi è capitato di vederlo in
giro. Su internet non c’è, per quanto dopo dieci anni, sono passati esattamente
dieci anni dalla realizzazione, ho intenzione di metterlo in rete.
A.R.C. Te lo chiedevo perché nel caso ci fosse, lo possiamo
linkare sull’intervista, anche in frammenti, se ci sono frammenti.
G.M.
Sì, certo anche se sull’intervista possiamo tranquillamente linkare il film che
abbiamo realizzato con Federico Cavallini su Colin Darke per Carico Massimo.
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Colin Darke, Gli dei partono, performance, 2012 - foto Carico Massimo |
G.M. Federico ed io abbiamo documentato la performance. Il video è un documentazione
dell’azione performativa. Anche in questo caso, attraverso la forma abbiamo
espresso il contenuto.
E’ un lavoro molto lento, commovente a tratti, nel senso
che vedere un uomo che per otto ore al giorno, per due settimane incide su delle mele, con un
coltellino, una lettera di Gramsci è emotivamente coinvolgente.
Abbiamo documentato il
lavoro, dopo di che, io ho fatto un esperimento: l’ho proiettato in un bar di
Roma, un baraccio. L’ho proiettato all’interno di un videopoker. C’erano tre videopoker,
in uno c’erano gli avventori che giocavano, e negli altri due veniva proiettato
il documentario di Colin.
A.R.C. Quando l’hai realizzato?
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Colin Darke, Gli dei partono, installazione, 2012 - foto Carico Massimo |
G.M. Un anno fa. Mi ero messo d’accordo con il proprietario, ho puntato
questo proiettore e ho proiettato all’interno di queste macchinette.
A.R.C. Hai inserito nel quotidiano un lavoro molto bello e complesso, all’interno di macchinette del video poker, che tutto sono tranne bellezza e complessità. Non abbiamo detto in cosa consiste il lavoro di Colin Darke. In sintesi cos’è?
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Colin Darke, Gli dei partono, installazione, 2012 - foto Carico Massimo |
G.M. Nel video semplicemente registro la performance, documento Colin che per due settimane, otto ore al giorno,
incide il testo di una corrispondenza di Gramsci - la risposta a Trosky, nel 1922, ad una richiesta di informazioni sul futurismo italiano- incidendo le
singole lettere su 556 mele. Le mele sono state poi lasciate decomporre.
Le mele sono state scelte
da Colin come citazione e riferimento alle mele in decomposizione dipinte da
Courbet durante la prigionia, a seguito della sua partecipazione alla Comune di
Parigi.
G.M. E’ un bar particolare, in via Montecuccoli, a Pigneto, dove è stato
girato “Roma città aperta”.
Io ho abitato per anni
lì, era il bar sotto casa e sotto il mio studio. E’ il Friends caffè, gestito
da due fratelli Bengalesi, frequentato da una popolazione molto varia:
pensionati, ferrovieri, migranti.
Negli anni, quando finivo
un’opera, la portavo al bar, la sistemavo sul frigorifero o da un’altra parte e
la lasciavo lì. Si capirà che è un’opera? Funzionava. Poi quando era assodato
che fosse un opera, ho smesso.
A.R.C. Mi hai detto che ci sono dei tuoi lavori, ancora lì.
C’è stato un seguito a questo esperimento?
G.M. Si, in seguito il proprietario mi ha chiesto un lavoro su “Roma città
aperta”. Ho riproposto la scena della Magnani che scappa, dove c’è la folla che
si assembla.
Ho semplicemente inserito
un a freccia con il pennarello scrivendo “voi siete qui”.
Da quel momento ho
iniziato a fotografare chiunque si sedesse lì. Sono spesso migranti,
pensionati, studenti. E’ quel discorso sulla storia che è un movimento
continuo.
G.M. E’ un contenitore d’arte contemporanea, dove degli artisti,
collezionisti, curatori d’arte contemporanea hanno deciso di provare a fare questo
esperimento: artisti che scelgono artisti. Il nostro vero capitale è questo:
artisti che lavorano con altri artisti. La bellezza di lavorare con Colin
Darke, con Gianfranco Barruchello, Babi Badalov. E’ una bella soddisfazione è
sembra che funzioni.
A.R.C.
gabrielemorleo.weebly.com
Conversazione con Federico Cavallini
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