sabato 8 ottobre 2022

Conversazione con Foschini e Iacomelli. Saluti dagli anni '20.

Lo scorso marzo incontro Angelo e Lavinia, l'occasione è la messa in opera dell'antologica Saluti dagli anni '20 recentemente inaugurata, (1 ottobre - 20 novembre 2022), con l'idea di completare un discorso sospeso nella Conversazione del 2017 pubblicare entrambe le conversazioni in catalogoL'obiettivo è verificare a distanza di cinque anni l'andamento del lavoro, chiarire una serie di punti toccati in superficie. E' un po' di tempo che parliamo di questa mostra, ma tra le tante faccende noiose che hanno attraversato le nostre vite -nel frattempo c'è stata una pandemia, un trasloco- siamo giunti ad oggi con l'ultimo dipinto, in senso cronologico, una riflessione ironica e amara sull'abitare, che apre il catalogo e idealmente chiude la mostra. Saluti dagli anni '20 ritrae Angelo e Lavinia seduti sul divano di casa -idea moderna di dimora minima- con indosso fantasiose maschere, protetti da invisibili pericoli. Ognuno di noi può comprendere l'origine di questo doppio autoritratto, capirne l'umorismo e identificarsi con esso, forse. Ma riprendiamo il filo, nel 2017 ci siamo lasciati che il lavoro stava prendendo una direzione nuova, sintetica dal punto di vista formale e  metaforica per ciò che riguarda i contenuti: tele di piccole e medie dimensioni, dipinte a smalto, che affrontano l'idea dell'abitare proponendo visioni di alloggi temporanei, quasi astratti. Gli argomenti trattati in quel primo incontro, i ritratti degli amici, i palazzi popolari, le architetture razionaliste, gli interni intimi e a tratti erotici degli anni dieci, ad un certo punto lasciavano il passo ad oscuri alloggi di precaria stabilità da cui emergeva un profondo senso di fragilità. Questa instabilità emotiva e plastica è l'argomento della nostra nuova conversazione. Siamo ripartiti da qui. 


Saluti dagli anni '20, smalti su tela, 150x160, 2022


Marzo 2022

ARC Quando ci siamo incontrati la prima volta abbiamo ripercorso la vostra carriera a partire dai primi dipinti realizzati come Koroo fino al momento in cui avete deciso di chiamarvi con i vostri cognomi. Ci siamo lasciati che operavate ad un progetto che è sostanzialmente la sintesi di tutto il vostro lavoro: le relazioni, l’abitare, il bisogno di stabilità tutto racchiuso nel concetto di dimora minima. Ripartiamo da qui.

F&I - Per noi l’architettura è sempre stato un elemento presente e condizionante nel rapporto con il contesto, con la figura umana. Ad un certo punto dagli edifici esterni ci siamo spostati negli interni delle case e questi interni erano anch’essi condizionati dall’essere solitamente un luogo domestico. E’ come se fossimo entrati all’interno di quelle architetture di cui ci siamo sempre occupati. Ci interessava l’abitare.

ARC – Negli ultimi lavori, nati proprio durante il nostro primo incontro, che costituiscono il nucleo della mostra del 2019 Neo Gotico Palladiano Sud Sahariano Extra Factory, la figura umana è sparita, anche le case sono qualcosa di essenziale, non c’è più l’edificio come luogo da abitare, la dimora è divenuta astratta. È divenuta un’idea o sbaglio.


Palafitta, - smalto su tela, 40x67 cm, 2016


F&I – Sì, tutto si è spostato sull’idea. Cosa rimane all’essere umano arrivati alla sintesi della dimora? Un posto sicuro, un posto dove stare, un posto da sistemare. Diventano una cosa astratta in questo senso qui, cioè qualcosa che costruisci per stare, per viverlo, che costruisci con le mani. Sono edifici che sembrano costruiti con il fango, con la paglia, col minimo indispensabile, con quello che trovi.

F&I – Volevamo arrivare rappresentare e comprendere quelli che sono gli elementi essenziali che ricordano il concetto di dimora, che è insito nell’essere umano come concetto di rifugio, di dimensione privata. Quali sono quei pochi elementi che effettivamente servono e che rendono riconoscibile all’essere umano l’idea di dimora? Ecco, ci siamo concentrati su questo.

F&I – Abbiamo guardato alle capanne preistoriche, alle capanne etrusche, alle capanne di ogni tempo e ogni luogo. Abbiamo cercato di appropriarci di quel minimo di elementi visivi, da pittori. L’impatto visivo prevale. Cosa si vede di questi elementi? Cosa serve per costruire? Un’immagine che dia l’dea della dimora, anche della sicurezza, un luogo dove rifugiarti quando tutto attorno e nero e buio.


S.t., 60x80 cm, smalto su tela, 2017

ARC –la tavolozza si è ridotta al minimo: nero, bianco e qualche giallo o ocra. Il fondo nero.

F&I – Sì, non sai mai se la figura emerge o si nasconde, se c’è il bene o il male in tutto quel nero. Questa doppia possibile visione riguarda l’esperienza di ognuno.

F&I – C’è una riflessione su cosa è considerabile sicuro e solido. Danno un’idea di solidità, però alla fine sono fatte senza fondamenta, senza quei criteri dello studio architettonico o almeno non sembra essere così. E’ un pensiero immediato, qualcosa che ti serve subito e costruisci con la solidità delle cose che hai intorno, ma non molto altro. In qualche modo sono fragili e solide allo stesso tempo.

ARC – Quanto ha influito la condizione perennemente diasporica di molta parte dell’umanità in continuo movimento, in fuga, partenze precipitose per via di conflitti, migrazione nell’idea di dimora fragile o solida a seconda dell’esperienza personale?

F&I –E’ un aspetto che ci ha sempre interessato. Ci siamo sempre chiesti quali fossero gli elementi indispensabili ad un essere umano per potersi rifugiare in un momento di estrema necessità. Il concetto della dimora primitiva era quasi nel calarsi nei panni di chi effettivamente è scappato, deve ripararsi dalle intemperie, deve nascondersi avvolte perché non deve essere visto, deve dare un minimo senso di sicurezza ai propri figli. Non lo fa solo con la sua persona ma anche con quello che riesce a costruire con il minimo indispensabile: un semplice telo e quattro legni.


S.t., - smalto su tela, 60x80 cm, 2018


ARC - Il tema della fragilità ritorna sempre nel vostro modo di affrontare il rapporto dell’essere umano con la società.

F&I – Fragilità e insicurezza sono due concetti che vengono sempre fuori sia nel primi dipinti che nei lavori a smalto, perché anche se si perde il rapporto con l’architettura, molte delle immagini che abbiamo realizzato successivamente si fondano su questo sensazione.

F&I – Nella mostra L’ossessione dello stupore, 2014 lo stupore è sempre accompagnato dal concetto di fragilità, perché è qualcosa di così impermanente, provato al momento, che passa, se ne va, e quando lo provi per qualcosa di tangibile, ti accorgi che sei te che proietti su qualcosa di tangibile lo stupore; l’oggetto o l’architettura ti aiutano a ricordare quella sensazione, però è un momento tuo, è fragile, veloce, temporaneo. In queste immagini a volte scattate da noi, spesso prelevate dal web, facciamo accadere qualcosa di imprevisto.


Palafitta #2 - smalto su tela, 40x50, 2020


ARC – Ma già alla seconda visione ti abitui agli elementi estranei, non stupiscono più.

F&I – E’ un altro stupore, diventa qualcosa di familiare, vai a ricercare cos’è che ti ha stupito la prima volta, con razionalità. Razionalizzando le cose si sintetizzano, ti servono meno elementi, ti accorgi che basta anche meno per stupirsi.

F&I – Il discorso della fragilità mi riporta alle relazioni, perché le relazioni stanno in piedi, sono solide finché ci investiamo, quando sono continuamente richiamate e possono dare un’idea di solidità, anche al mondo esterno ma questo non è mai dato sapere in realtà. L’dea di dimora io la vedo più quasi come qualcosa che richiama simbolicamente alla relazione, che si crea perché sia solida ma che va continuamente aggiustata o comunque percepita solida perché lo sia, altrimenti crolla sotto il suo stesso peso.

F&I – Rischia di rimanere uno scheletro abbandonato a se stesso, testimonianza di un passaggio, testimonianza di una relazione come diceva Lavinia, che però si regge sui fili.

ARC – Il vostro ultimo lavoro invece vede di nuovo voi due protagonisti, siete invecchiati, su un divano e indossate delle maschere protettive: antigas e a becco di uccello steampunk.

F&I – E’ come chiudere il cerchio e aprirne un altro. E’ un quadro ironico, un po’ inquietante. Siamo approdati in questo luogo qui: un divanetto per due. Non è molto diverso dalle capanne, una struttura minima indispensabile, galleggiante in un vuoto. Frontale, essenziale.

Link collegati:

Conversazione con Foschini e Iacomelli, 2017

  http://www.foschiniiacomelli.it/


lunedì 5 settembre 2022

Conversazione con Antonio Sotgiu/ A Different Point Of View

Incontro Antonio sul Lungomare di Porto Torres. Ancora per caso. L’ultima volta, circa otto anni fa, abbiamo parlato del suo lavoro, la sua carriera nella moda. Mi dice: <<pensavo proprio a te, volevo parlarti di una mostra fotografica che farò a Milano il prossimo settembre.>> Mai contraddire il caso, è il motore della creatività e dell’arte. Prendiamo un caffè. Siamo entrambi in vacanza. Chiacchieriamo, mi racconta del progetto. Ci separiamo con l’accordo di prenderci il tempo giusto per dare forma alla conversazione. Lasciamo la fluidità delle parole alla lentezza della chat (sembra una contraddizione, invece no) decidiamo che nei momenti di pausa io gli chiedo qualcosa e lui, quando ha tempo, risponde.



A Different Point Of View presentata da Roberto Mutti nello spazio Kryptos a Milano, per la 17TH edizione del PHOTOFESTIVAL è un progetto che riflette sulla costruzione dell’immagine femminile e sulla realtà del femminile. Quella della moda è una costruzione fatta di canoni stereotipati a partire da modelli sociali, fisici, quasi sempre ideali: ”l’immagine del desiderio”. Antonio Sotgiu design nella moda e fotografo per passione non si sottrae all’idea di proporre una sua personale visione del mondo a cui appartiene. Different Point Of View è composta da una serie di scatti realizzati con lo smartphone, una scelta che gli consente di sottrarsi all’ immagine patinata, sostituendo alla perfezione tecnica uno stile snapshot. Un itinerario in tre fasi sulla rappresentazione della donna e sulla fascinazione che la bellezza esercita su tutti noi. L’autore ne sottolinea inciampi e luoghi comuni visivi: ciò che pensiamo di sapere e di vedere spesso risulta essere un luogo comune, una messa in scena e, là dove talvolta crediamo di vedere una messa in scena, troviamo invece la realtà. Ha come riferimento visivo Andy Warhol, Man Ray e propone scatti di modelle feticcio, manichini, attrici, amiche, madri; spetta a noi trovare la bellezza, la verità e l’artificio, comprendere la messa in scena e conoscere la verità del racconto. Del resto era Warhol che diceva <<Non saprei dire dove l’artificiale finisca e inizi il reale.>> I, 94*




ARC A settembre avrà inizio la 17th edizione di PHOTOFESTIVAL 2022 Milano, dal titolo Ricominciare dalle immagini. Sarai presente con Different Point Of View. Come nasce questo progetto?

AS Questo progetto nasce, come tutto nella mia vita, in modo casuale. Sono andato a vedere una mostra allo spazio Kryptos e Giuseppe Trifirò, responsabile dello spazio assieme a Maria Carmela Ventura, dopo aver saputo che ho studiato fotografia al liceo, ho fotografato per tanti anni e ancora fotografo, mi ha proposto di esporre una personale. Gli ho spiegato che mi occupo di moda e la fotografia rappresenta per me un rifugio, mi allontana dalla routine del lavoro che nella moda ha un ritmo molto serrato. Comunque, ha trovato interessante il mio modo di vedere e così è iniziato tutto.

 



ARC Che tipo di narrazione visiva hai realizzato?

AS La mostra è concepita a partire dai miei diari. Per ogni progetto realizzo sempre un quaderno, un agenda, un diario con tutto il percorso che voglio sviluppare. Il progetto mi caratterizza, è un aspetto del lavoro a cui dedico molta attenzione. Così, presento in galleria questo immenso materiale e naturalmente le stampe di prova e Beppe rimane molto sorpreso dalla mole di lavoro. Mi presenta Roberto Mutti, curatore della mostra, nonché curatore di PHOTOFESTIVAL 2022. A quel punto penso che non sia una cosa per me, non per modestia, la falsa modestia non mi appartiene, piuttosto non pensavo mi riguardasse. Ho accettato, pensando ad una mostra piccola, comunque un progetto breve, invece è diventato qualcosa di più grande. Different Point Of View farà parte della 17TH edizione del Photofestival, a cui non avrei mai pensato di partecipare.

 


ARC Se la progettazione per te è importante, perché la scelta di un dispositivo come lo smartphone, che sembra il mezzo più consono per una foto “sbagliata”? Come hai reso compatibile la progettazione e lo smartphone?

AS Tutto è partito proprio da questa idea, cioè usare un dispositivo apparentemente non adeguato, nel senso che ho voluto dare alla progettazione un’impronta nuova – nuova per modo di dire, perché già Andy Wharol usava la polaroid per fare i suoi lavori – quindi così come la polaroid è stata un mezzo innovativo e popolare per Wharol, mi pare si possa dire lo stesso oggi per lo smartphone: un mezzo di uso comune, usato in modo “sbagliato”. Volevo dare una soluzione nuova all’utilizzo del mezzo, una mia interpretazione. Tra l’altro, proponendomi in una galleria come lo spazio Kryptos, a Milano, volevo che fosse molto chiaro, dichiarato che gli scatti fossero realizzati con lo smartphone, per dare il livello adeguato e rimettere tutto al posto giusto. Non volevo degli scatti perfettissimi, non mi interessava questo approccio, volevo mettere in evidenza il contenuto su la mia visione della donna. Ho scartato tutti gli scatti fatti con macchine professionali, ho scelto quindi solo immagini scattate con lo smartphone, il che mi ha aiutato a dare la giusta misura al discorso. Il contenuto doveva superare la tecnica di una foto perfetta.

 



ARC - DIFFERENT POINT OF VIEW: un differente punto di vista sulla donna da parte di chi per lavoro continuamente immagina, disegna, misura, veste un corpo femminile ideale e reale. In cosa consiste questo punto di vista? Che tipo di percorso è quello che hai realizzato per questa mostra?

AS L’aspetto fondamentale non è tanto vestire, ideare e poi adattare ad un immaginario femminile irreale, questo è quello che succede quando si inizia a lavorare, la parte fondamentale di questo percorso in mostra è stato mettere in evidenza l’idealizzazione del corpo. Quanto il corpo delle donne, nel mondo della moda e della comunicazione, è il processo di costruzione di un modello. Ad esempio, quello rappresentato da un corpo estremamente magro, idealizzato e non reale, perché è chiaro che le modelle sono un feticcio. Volevo mostrare un’altra visione di questo stereotipo. Sono partito dall’immaginario femminile che avevo quando ho iniziato questo lavoro, quando ero più giovane e l’immagine della donna era di una figura estremamente magra, molto alta, che aveva dei canoni che non rispecchiano la realtà. Sono passato a rappresentare una figura fatta di misure, di canoni, che diventano poi effettivamente un manichino, come accade alla modella ritratta accanto al suo manichino, un calco ottenuto attraverso il body scanner della modella stessa, quindi la nascita di un feticcio. Non è una cosa reale. Lei è una modella molto importante, ha lavorato con molte Maison. E’ una donna di 35 anni, ha una figlia, lavora, sfila. Il suo corpo è estremamente magro, ma è il suo corpo reale, naturale, anche se potrebbe non sembrare vero. Questo per far capire che lei è fatta così, non è un corpo da imitare, non è un corpo da portare alle ragazze come esempio, perché potrebbe portare messaggi sbagliati. Dalla modella vera e propria, ad un certo punto sono passato alla modella manichino e dagli scatti coi manichini infine alle donne reali. E’ la costruzione di un immaginario. Mi interessava dire che le modelle sono queste, le modelle diventano un feticcio, un manichino, che è una parte della mostra e, dal manichino arrivo alle donne vere. Ho ritratto amiche, madri, attrici. Perché al di là della moda, le donne hanno il diritto di essere quello che realmente sono.





ARC Tra le immagini in mostra ci sono anche i collage. Sono tuoi scatti o appropriazioni? Mi interessava sapere se la loro presenza riguarda un preciso stereotipo culturale che volevi mettere in evidenza, ad esempio certe declinazioni del femminile etnografico, spesso presenti in foto di moda, pubblicità?

AS Gli scatti sono tutti miei. Ho voluto mettere in questi piccoli collage le rappresentazioni che la donna ha dovuto vestire nella società nel corso della sua storia. Ho realizzato gli scatti ricostruendo una situazione, una storia. Le tre attrici interpretano un ruolo. In uno dei collage ad esempio è presente una donna sarda che prega davanti ad una porta. Sembrerebbe una madre che aspetta, forse suo figlio -sotto c’è la foto di una bici- e come se il figlio fosse andato via, a giocare o partito per un viaggio. E’ un’attesa. Ma la scena è una ricostruzione. La ragazza che interpreta la madre non è una persona che vive indossando il costume sardo. E’ una persona che ho incontrato durante una rappresentazione folcloristica a San Gavino, a Porto Torres. L’altro college, in tutto sono tre, rappresenta lo stereotipo della Geisha. Come si può vedere di lato c’è una targa con su scritto camerino. Non è una Geisha, è un’attrice che ho fotografato dietro le quinte di una rappresentazione di Madame Butterfly. Sopra ci sono dei fiori, non sono dei fiori di ciliegio, ma ne evocano il colore, perché rappresenta un altro stereotipo di donna, di donna orientale. Volevo fosse evidente l’associazione dei luoghi comuni. 

 



L’ultima è una rappresentazione storica in un paese del nord Europa, mi pare Stoccolma. E’ la ricostruzione di scene domestiche in alcune piccole case che venivano date in uso a contadini, lavoratori della terra. Le donne avevano tutto il necessario in un’unica stanza: il caminetto, il letto ecc. perché vivevano soprattutto fuori, negli orti. Questa ricostruzione è realizzata dall’ufficio del turismo, quindi anche questa è la una messa in scena, rappresentazione di un ruolo che aveva una donna contadina del nord Europa, penso intorno agli anni quaranta o nell’immediato dopoguerra. Ho deciso di realizzare il collage perché mi piaceva l’idea di raccontare delle piccole storie, piuttosto che esporre le singole foto.



ARC L’anno scorso sei apparso assieme a tanti volti noti nel progetto I Muri del silenzio di Mjriam Bon e Giusy Versace, un progetto contro la violenza di genere. Tieni molto a questo progetto. Me ne vuoi parlare?

AS Sì, questo tema chiude il percorso della mostra. La violenza di genere è un tema che mi interessa molto. Si collega tutto come in un anello. Avrò ospite Mjriam Bon, una fotografa e Giusy Versace che hanno collaborato per un progetto che si chiama “I muri del silenzio” contro la violenza di genere. Ho avuto l’onore di essere uno dei volti ritratti assieme a tanti personaggi noti e meno noti. Dei numerosi realizzati per il progetto, ospiterò due trittici, nei quali i personaggi ritratti simulano le tre scimmiette del non vedo, non sento, non parlo. Un atto contro l’omertà, la non curanza, un atto di ribellione contro tutto ciò che genera violenza di genere, non solo la violenza in sé, ma anche il messaggio violento.

ARC

I'll Be Your Mirror. The Selected Andy Warhol Interviews: 1962-1987 a cura di K. Goldsmith, Corrol and Graff, New York 2004; trad. it Sarò il tuo specchio. Interviste a Andy Warhol, Hopefulmonster Torino, 2007.

Link collegati: Conversazione con Antonio Sotgiu 2014

lunedì 24 gennaio 2022

Conversazione con Anna Ratajczyk

Nata a Zielona Góra (PL), vive e lavora a Livorno.
Ha studiato pedagogia e fotografia all’Università di Zielona Góra, dopo la laurea si è trasferita in Italia. Ha collaborato con Egg Visual Art un collettivo di artisti attivi a Livorno in progetti d’arte contemporanea. Nel 2019 ho iniziato il percorso formativo presso Fondazione Studio Marangoni a Firenze.

Secondo la definizione di Oliver Wendel Holms la fotografia è uno <<specchio dotato di memoria>>, il mezzo più consono perché si possa conservare, preservare e tramandare e, anche specchio di se stessi poiché unifica sullo stesso piano soggetto e oggetto. Ai tempi di Cudzoziemka 2018(Straniera) pensai che conservare, riorganizzare la memoria fosse la cifra di Anna Ratajczyk. Oggi, se pure orientata verso nuove strategie e sperimentazioni tecniche, il suo immaginario visivo e narrativo è ancora questo. Chiara in 97m² come il lavoro in progress sulle cicatrici sembrerebbero rivolti al presente, eppure anche questi sono lavori su preservare e tramandare. Recentemente, per La casa è un suono lontano Saiko ha prelevato fotografie di famiglia, lettere, immagini, oggetti d'affezione, mail perse nel web e allo stesso tempo catturato l’istante presente fotografando momenti di vita domestica, luoghi del quotidiano mescolando tempi e spazi, desideri e ricordi. Il tempo della memoria e l’immediatezza del presente si sono fusi in un cortocircuito il cui esito è un racconto emotivo, certamente introspettivo, carico del peso e della leggerezza della vitaA muovere un ulteriore passo in questa direzione è l'idea di immagine come transito, fondamentale è stata la lettura di James Hillman per cui la vera immagine ha la capacità di sospendere spazio e tempo, non spingerci a fare qualcosa ma al contrario trattenerci dal fare e portarci in una dimensione altra verso l’introspezione interiore ma anche sviluppare la capacità di comprendere e governare le nostre emozioni, migliorarle.
 
Cudzoziemka(Straniera)


ARC – Quando ci siamo conosciute, nel 2017, lavoravi al progetto Tagli a cui ha fatto seguito Straniera, che ci ha permesso di conoscerci meglio. Partiamo dei Tagli …
AMR - Quando ho fatto Tagli avevo dentro un’idea, una voglia di raccontare alcune cose, ma oggi mi rendo conto che quello era un modo di raccontare qualcosa di molto più profondo, che potrei definire ingenuo.
Quando penso ai miei primi lavori, quando lo sguardo attraversa i tagli sento, vedo un susseguirsi delle esperienze di vita che si dispiegano interiormente. Un esperienza diretta, un pensiero del cuore, riflesso dell’anima. Poi ci sono libri che ti cambiano la vita: dopo aver letto il dialogo tra Silvia Ronchey e James Hillman Ultima Immagine ho trovato un alfabeto, un linguaggio molto intenso per raccontare quello che volevo dire tanto tempo fa. I nuovi lavori stanno andando in questa direzione.
 
ARC – Perché pensi che l’approccio a Tagli fosse ingenuo? Cosa intendi?
AMR – L’approccio sembrava inesperto perché erano anni che non prendevano in mano la macchina fotografica, con i tagli ho ripreso vita, sono riemersa, ritornata come artista.
In quell’occasione volevo affrontare il dolore della scelta di un intervento chirurgico, di qualcosa che per me era impensabile. Tagli era un modo per far vedere alle persone il mio punto di vista, per far entrare gli altri dentro questa problematica, far vedere il mio dentro attraverso dei tagli sulla superfice della fotografia. Volevo raccontare che c’è un immagine più profonda dell’immagine visibile, una lacerazione che diventa un invito ad entrare attraverso la fessura per scoprire varietà dei mondi nascosti, strati delle realtà: toccare l’invisibile.

Tagli

 
ARC –Se non sbaglio erano quasi tutti autoritratti, era il taglio a dare luogo al transito.
AMR –Perfetto, era un’apertura per scoprire l’enormità del dolore.
Una volta varcata la soglia ci si può abituare, si può convivere, accettare e trovare l’equilibrio, innamorarsi del dolore.
 
ARC – E’ un lavoro che hai concluso o hai deciso che proseguirai ad analizzare questo tema?
AMR – Ho proseguito con altri tagli, perché il taglio si estende, e il lavoro successivo è quello delle ferite, una continuazione del lavoro dei tagli che non ha una fine, non è un lavoro concluso, è un leitmotiv che si estende in tutti i lavori. Quando affronti certi temi a volte ti allontani, poi torni, poi riprendi il discorso che si estende come una ragnatela per diventare il mio percorso. E’ una cosa che ti insegna la vita, non la puoi abbandonare.
 
ARC – Ricordo che qualche tempo fa stavi lavorando ad un progetto sulle cicatrici, una ennesima evoluzione. Te ne stai occupando ancora, come prosegue?
AMR –Sì, i tagli si sa diventano cicatrici, ovviamente. Sono progetti ancora in progress, che proseguono in parallelo ad altri.
Cicatrice come un manifesto, cicatrice come dialogo, restare “cuciti” al tessuto della vita, come se fosse l’unico modo di stare al mondo.

La casa è un suono lontano

 
ARC – Negli ultimi tempi hai completato due lavori in qualche modo complementari, uno sulla memoria La casa è un suono lontano e l’altro sul presente Chiara in 97m² sulla vita a casa durante il lockdown. Di cosa si tratta?
AMR –Il lavoro sul passato è molto interessante. Quando ho visitato la mia casa in Polonia ho ritrovato delle foto di cui non conoscevo neppure l’esistenza. Quando sono morti i miei genitori ovviamente la casa si è aperta alla mia presenza e ho trovato dei ricordi, delle memorie fantastiche che ho cercato di raccontare mischiandole con il presente. Ho fotografato il retro delle foto che riportavano date, dediche, nomi delle persone ritratte e le ho unite a immagini del mio presente. I testi in polacco, una lingua straniera -per un italiano sono solo suoni-, per me l’essenza del passato, la memoria. Ho unito le due immagini: il richiamo del passato si è fuso con l’istante ed è nata la storia.
 

La casa è un suono lontano 

ARC – E’ curioso questo lavoro. Nel titolo ti riferisci al sonoro, non al visivo. Anche in Cudzoziemka (Straniera) il suono aveva una sua parte importante. Non sentiamo il testo lo vediamo soltanto.
AMR –E’ un lavoro molto legato al tempo e al luogo dove vivo, al mare così presente nella nostra vita, nella vita di Livorno. Ci sono tante situazioni legate al suono, al suono del mare, un suono indistinto che evoca memorie lontane. Il passato si è fuso con la materialità della pietra, delle rocce portatrici dei messaggi del passato, il suono diventa luce che disegnava mio passato e disegna il mio presente, perché il tempo finisce e la luce continua ad esistere.
 
Chiara in 97m²


ARC – Parlami di Chiara in 97m². Le foto sono state scattate nei mesi di chiusura durante la primavera 2020. Lo trovo un lavoro molto divertente, c’è parecchia ironia nonostante il tema. 
AMR – Era molto divertente cercare di mettere insieme i bambini. Era posato ma organizzare tutto il set è stato fantastico. Per loro era un gioco, per me era lavorare, ovviamente. E’ stato difficile mischiare il ruolo di mamma e fotografa. Loro non capivano perché, però spero di essere riuscita a catturare il carattere dei bambini, l’atmosfera, il silenzio di mia figlia e il bimbo con la sua ironia. La Chiara del titolo è mia figlia, ha 17 anni. Quando è iniziato il lockdown il mondo si è fermato, si è fermata anche la scuola. Nonostante fossimo a casa dovevo proseguire i miei progetti iniziati alla Fondazione Marangoni. Siamo chiusi a casa e nasce la storia di Chiara che ha un fratello e ovviamente vuole apparire anche lui. Lo sguardo si concentra su Chiara che forse necessita di più attenzione, forse è un richiamo da parte sua, seppure per lei diventi difficile essere ripresa. Ognuno ovviamente cerca di tirare fuori il meglio. La collaborazione tra noi in questo progetto è molto intensa.
 
Chiara in 97m²


ARC – Non è la prima volta che sono presenti in un lavoro, avevi già fotografato i tuoi figli quando erano più piccoli.
AMR – Sì, perché tutte le storie si intrecciano, è un tema soffocante, claustrofobico. Io devo mettere le cose apposto, devo raccontare perché so che esiste la fine, sono consapevole. Ho sperimentato la fine, mettere apposto le cose, raccontare le cose è importante.
 
Cudzoziemka(Straniera)


ARC – L’ultimo tuo impegno è un altro lavoro su sistemare, recuperare la memoria. Parliamo di Saiko.
AMR –Nasce in collaborazione con Percorsi fotosensibili.  E’ stata un’esperienza molto difficile perché scrivere in italiano per me non è semplice, non riuscivo a raccontare, non sapevo da dove partire. Doveva essere una bella esperienza, un progetto di parola e immagine, che mi ha messo in crisi. Paradossalmente è stata un’occasione per ritrovare altre memorie: quella di una ragazza scomparsa dalla mia vita per tantissimi anni, poi ritrovata con grande fatica e grande sforzo e, allo stesso tempo, il racconto di un viaggio mai avvenuto. Così è nato il progetto.
Con Saiko ci siamo conosciute tanti anni fa, abbiamo fatto il corso di italiano insieme. Questa cosa ci ha legato tantissimo, perché eravamo due straniere, due ragazze provenienti da due paesi diversi e lontani che si sono trovate a Livorno a studiare italiano. Lei ad un certo punto è partita, è rientrata in Giappone, io dovevo raggiungerla, invece c’è stato il terremoto e i nostri contatti si sono interrotti. Là si è fermato tutto. Non trovi le risposte. Le mail che forse non arrivano, chissà, invece dopo dieci anni risponde alla mail e nasce il racconto.
 

 Saiko


ARC – Perché hai scelto di realizzare questo lavoro con la polaroid?
AMR –E’ stato un esperimento riuscito alla perfezione (anche se un esperimento). In questo caso dovevo accogliere, accettare l’handicap, l’imperfezione del mezzo e in certo senso del risultato che diventa il lato forte del racconto. Mi piace tanto la materialità della polaroid, l’immediatezza. Per me è un biglietto, un biglietto per una partenza, come ogni viaggio riserva sorprese, incertezze e nello stesso momento la destinazione, stampata sul documento di viaggio, rimane definita e chiara. Questa storia della polaroid, oltretutto, si collega ancora una volta alla memoria della mia famiglia. In quella incursione a casa dei miei genitori ho trovato delle polaroid di una mia zia Weronika che sono meravigliose. Lei abitava in America e mandava queste polaroid fatte con una macchina SX-70 accompagnate a delle lettere. Erano i primi anni ottanta. Per noi era un sogno proibito, con tutto quello che offriva.
 


ARC –La polaroid è il viaggio, tutto ciò che è lontano o irraggiungibile, ma in Saiko utilizzi il mezzo per ritrarre frammenti di pensieri, più che tracce di un viaggio.
AMR –Sì, ricostruisco la memoria e la relazione con Saiko, metto insieme frammenti di oggetti che ci legano, riferimenti alla nostra vita, pensieri. Lontano diventa vicino. Esiste una immagine più profonda dell’immagine visibile e il mio è solo un indizio, un riflesso, un invito, una rappresentazione dell’essenza dell’anima.
ARC

Sito ufficiale: Anna Ratajczyk