mercoledì 13 novembre 2019

BAROQUE II (Konmari)


Sussidiario

L’economia domestica è stata una materia scolastica, poi espulsa dalla scuola anni fa è rientrata nelle nostre vite sotto forma di tutorial. Ne esistono di ogni tipo. Mi ha stupito la notorietà raggiunta da un libro intitolato Konmari. Studiato da una esperta giapponese di economia domestica, Konmari è un metodo per riordinare al meglio gli spazi abitativi allo scopo di migliorare la qualità della propria vita. Mi ha fatto pensare al metodo di Marina Abramovic.

Durante la fila costruisco scenari, immagino storie. Guardo tutte queste persone e penso: cosa le ha spinte a scegliere questo museo, questa mostra? In cosa ci assomigliamo? A volte a vederle immagino abbiano sbagliato strada. Ci sono quelli che non sanno neppure cosa andranno a vedere, lo capisco dai discorsi. A volte sono stati sedotti dalla pubblicità, dalla fama dell’artista, da un concierge d’albergo. Genitori tenaci, disposti a tutto pur di entrare e dire di esserci stati, trascinano bambini annoiati, piagnucolosi o iperattivi. In fila, le famiglie hanno spesso in aria disorientata, qualcuna non ha idea di che cosa sia The Cleaner. Per fortuna interviene l’amico smartphone, colui che soccorre l’inconsapevole e, tutto cambia. Coppia giovane, marito alla moglie "Ci sono persone nude, guarda, non è adatto ai bambini"; moglie al marito "è molto famosa, magari dove ci sono i nudi non andiamo"; marito alla moglie "dice che i nudi sono all’ingresso, guarda la foto, devi passarci in mezzo" mostra la foto, moglie al marito "No! Per carità io in mezzo a quei due non ci passo! Andiamo via! Se facciamo in tempo entriamo all’Opera del Duomo."
 

Lo hanno detto. Erano in fila a pochi passi da noi. Subito dietro una coppia di settantenni dall’aria molto composta. Due insegnanti in pensione? Lui fuma il sigaro, lei piumino Barbour e foulard Gucci. Si scambiano sguardo complice e ridacchiano. Probabilmente, c’erano anche loro alla prima di Imponderabilia nel 1977, a Bologna. Lui aveva tutti i capelli, magrissimo, jeans velluto a coste larghe, sfoggiava un bel paio di baffoni bruni; lei gonna lunga, zoccoli e cardigan di lana. Nelle foto delle performance storiche esposte in mostra il pubblico è più o meno così. Quella volta non era ancora disponibile l’opzione “passare dall’ingresso laterale per i disabili”, oggi, i visitatori potranno scegliere se passare tra i corpi dei due giovani attori oppure attraversare un varco laterale. Imponderabilia non è più un’azione, potremmo definirla una simulazione. Immedesimazione di altri corpi nel corpo dell’artista. Gli attori di Imponderabilia fanno dei turni, ognuno ha un certo numero di ore a contatto con i corpi turistici sudaticci reali, a pochi centimetri dal proprio corpo artistico simulato. Sono dei professionisti, il loro sentire è simulato a patto di dare per scontato che il sentire dell’artista sia sincero. Più che alla nudità dei due attori, ho pensato ai loro sensi. Immagino questi due operai dell’arte, stipendiati poco, mettere in scena, recitare una parte e, annusare le ascelle di tutti i convenuti. Marina e Ulay grazie al pronto intervento delle forze dell’ordine se la sbrigarono in novanta minuti, il tempo di una partita di calcio. La polizia non chiuderà la mostra, come nel ‘77, i tempi sono cambiati, ogni cosa è in regola, compresi i contratti degli attori. La Body Art è morta.


Sussidiario

(…) "L’esistenza dei Nuovi Corpi, come li chiama lei, creerà una notevole confusione, non crede? Come faremo a sapere chi è vecchio e chi è nuovo?" "Su questo argomento non è stato formulato alcun tipo di pensiero," disse lui "proprio come ci sono state discussioni sull’aborto, sull’ingegneria genetica, sulla clonazione e sui trapianti d’organi, o su qualunque altra scoperta medica, ci saranno discussioni anche su questo."
"Certo questa è una cosa di ordine diverso," dissi io. "Genitori che avranno la stessa età dei figli o magari saranno più giovani, per esempio. Cosa significherà?"
"Questo lo diranno i filosofi, i poeti, i preti e i commentatori televisivi. Il mio lavoro è solo quello di estendere la vita."
Il corpo, Hanif Kureishi

- Che schifo! Non passo in mezzo a due persone nude. – Protesta lei, mentre gli restituisce lo smartphone.

- Esagerata, è una performance. Non ti interessa fare quest’esperienza? – Cerca di tranquillizzarla, lui.

- A me piacciono le pale d’altare, i ritratti, le Madonne in trono.

- Anche a me piacciono le pale d’altare, allora?

- Allora perché venire a vedere questa schifezza?

- Schifezza, che esagerazione!

- Comunque, questa non è arte. Hai visto cosa fa? Urlare fino a svenire non fa di lei un’artista, e quella cosa dentro la lavatrice?

- Quale cosa dentro la lavatrice?

- Sì, quell’altra cosa che fa nella lavatrice.

La guarda interdetto. Questa della lavatrice potrebbe essere una nuova performance di cui non ha saputo l’esistenza? A questo punto, fingendo di leggere dal booklet -non ha nessuna intenzione di rinunciare alla mostra- con tono condiscendente si produce in un elenco fantasioso di opere note dell’artista.

– E’ verosimile ci siano anche opere modello pale d’altare, dei trittici di ispirazione mistica, una Pietà… poi… dovrebbe esserci… non ho certezza, anche una Madonna in trono e, opere penitenziali.

Le performance di Marina Abramovic sono azioni di resistenza fisica e mentale. Ultimamente rasentano l’esercizio yoga. Couting the Rice. Mi sono rifiutata di separare i chicchi di riso dalle lenticchie. Va beh! Non esageriamo, mi diverte mettermi in gioco, ma le lenticchie no! Bello, si molto bello! Poi si offende se le fanno la parodia. Il nostro compagno di fila non si è inventato proprio niente, ha semplicemente piegato la realtà alle sue esigenze, ha comunque dato una spiegazione neppure tanto strampalata alle opere più note. Che ci sia del misticismo non è un segreto. La sua amica troverà trittici di ispirazione mistica, opere penitenziali e Madonne in trono, anche un “madonno”, se per questo! La performance nella lavatrice? Quella proprio no! E’ una parodia con Cate Blanchet.
Facciamo la fila, ci facciamo compagnia. The Cleaner, Marina Abramovic.

Sussidiario

Ho riflettuto un po’ su questa retrospettiva e sono arrivata alla conclusione che The Cleaner sia un progetto di musealizzazione in progress. L’artista interpreta il ruolo di curatore-conservatore. Abramovic riprogetta le sue antiche performance per altri corpi: seleziona, riscrive, documenta e musealizza. Il suo è un lavoro di archiviazione e restauro. Replicate a distanza di anni, con l’ausilio di attori, le performance acquistano un altro significato, si raffreddano, perdono la carica emotiva che legava Marina al pubblico. La sparizione del corpo dell’artista per un’opera di Body Art non è una questione secondaria. La scelta di replicare le performance con l’ausilio di attori, ha spostato il paradigma della performance da “perdita di identità” a “cessione di identità”, dal corpo dell’artista, alla sua sparizione. Il corpo non è più il centro della riflessione artistica, neppure nella sua versione posthuman normalizzata. L’arte ha preso una via verso l’antropologia e la sociologia. Che tipo di cambiamenti apporterà l’operazione di Marina Abramovic nell’arte? Probabilmente nessuno. Il suo è solo il sistema più attuale di occuparsi del proprio lavoro, eliminare ciò che non serve, rinfrescare le altre opere, lasciare ai posteri esattamente ciò che vuole. Un’operazione d’archiviazione prima della dipartita, riscrivendo la storia, non lasciando ad altri il compito. Nel caso fosse ancora viva, ha ucciso definitivamente la Body Art.

Ad una conferenza una tizia si è alzata e ha urlato "MARINA ABRAMOVIC NON È UN’ARTISTA!" Giuro l’ha fatto. Non era neppure una conferenza d’arte, almeno lo era solo in parte, il relatore, uno psicoterapeuta, parlava della creatività come terapia o qualcosa di simile, non ero interessata, accompagnavo un’amica. L’intervento della barricadiera inaspettata ha avuto comunque il merito di destarmi dalla noia. Naturalmente non posso respingere in toto l’idea che potesse fare parte della combriccola: una infiltrata tra il pubblico nel ruolo di antagonista per vivacizzare la serata. Ciò non toglie che con quella dichiarazione la signora ha introdotto in un contesto altrimenti soporifero una questione filosofica della postmodernità: il discredito dell’artista. Il discredito dell’artista è uno sport piuttosto praticato. Il rischio che corre l’artista contemporaneo, sempre al centro dei media, in un contesto di divismo esasperato è che la sua identità, a prescindere dal valore delle opere, venga posta su un piano differente da quello artistico o sufficientemente estetico. Se la sua fama è di portata planetaria la diffusione sarà proporzionata, così il disprezzo. Per un artista meno noto, tenendo conto che le reti sociali arrivano dove non arriva tutto il resto, la portata dell’odio non sarà inferiore, piuttosto sarà marginale l’importanza del suo discredito artistico.

Sussidiario

Ispirato al documentario di Matthew Akers del 2012, Marina Abramovic: The Artist is Present, Waiting for the Artist è una parodia-omaggio e fa parte della serie Documentary Now, falsi ispirati a documentari famosi del XX secolo, ricreati in chiave parodistica.
Raramente avviene che un artista visiva vivente raggiunga una fama tale da meritare una parodia, quando accade lei dovrebbe esserne orgogliosa, invece penso che il film Waiting for the Artist con Cate Blanchett non le sia piaciuto per niente. Io l’ho trovato fantastico, ho riso alle lacrime, soprattutto per la performance dentro la lavatrice. Mi è sembrato un grande omaggio, una dichiarazione d’amore.
 
Dispensatrice di spiritualità prêt-à-porter Marina Abramovic suscita grandi odi e profonde devozioni. E’ divisiva. Ha unificato nella sua persona il sacro e il profano. Ha superato in termini sentimentali persino l’icona del femminile, sintesi del sacro e del profano, Marilyn di Warhol. Il giorno dell’inaugurazione a Firenze, un artista le ha spaccato in testa un quadro.
La fila prosegue. La maggior parte delle persone guarda lo smartphone e non parla affatto. Mi incuriosisce quella tipa lì, quella signora sui sessanta, occhiali con montatura bianca stile Wertmuller, zoccolo con pelliccia –vanno molto di moda quest’anno- cappottino, zainetto sulle spalle. Al momento è sola, non dice nulla. So che il suo intervento potrebbe essere lirico, perché è una emotiva, cerca in tutto ciò che vede qualcosa di ideale. Anche di fronte ad una forma artistica didascalica, cronachistica lei sente poesia. Quando Marina è sulla sedia/trono, l’ampia veste rossa, lo sguardo distante, lei tende a pensarla come una visione medievale, una Maestà

Ma lei, volto fiorito/ Sulla grazie dello stelo, /tutto domina, ovale/ appena appena / granito porporino, / tutto in sé contiene, / seduta sul trono/ di pace e di vertigine.

S’introna, / s’ inaugusta/ di limpida maestà[1].

Dopo aver visto il film, ai tempi di The Artist is Present, anch’io l’ho immaginata così, una Maestà di Duccio o Simone Martini, distante e separata, eppure seducente come una Gioconda e sacrale come Marilyn. Madonna-Gioconda-Marina Abramovic.
Infondo in quella performance ha saputo fondere in un’unica esperienza il concetto di pellegrinaggio religioso e laico, i santuari Mariani e l’ossequio al genio del Rinascimento. Nei tre mesi della mostra al Moma ci sono state persone che si sono commosse, hanno pianto. Il clima era miracolistico. Invece, difronte al giovane attore che impersonava Marina alla mostra fiorentina non è accaduto niente. Prima di tutto era un uomo in t-shirt e calzoni neri, niente di più triste. Troppo giovane, sconosciuto, perché commuoversi? Sembrava la sua versione in prosa, un calco, il resoconto di un ausiliario del traffico. Era un corpo in prestito, vuoto. E’ stato come guardare una didascalia di carne. Dov’è finito il corpo mistico dell’artista? Il dono? Non è rimasto niente di “Marina ci guarda, Marina ci ama, è connessa con noi". Quando il corpo mistico dell’artista scompare, perché qui è sparito, è sufficiente sostituirlo con un simulacro vivente? Direi di no. Meglio l’incarnazione in un idolo di pietra. Prima di transitare al book shop, per l’ennesima calamita da frigo, passiamo a purificare lo spirito nella sala dei cristalli. Fredda geologia, nessuna compassione ma adorazione new age. Mi sono pentita di non aver indossato le scarpe di granito, a ripensarci avrei dovuto pazientare un po’ e fare un selfie, ma prima di me c’erano due giovani pellegrine che non smettevano di chiocciare e fotografare, ho lasciato perdere, non avevo voglia di aspettare che finissero, però ho provato il cuscino di granito e la sedia con gli spunzoni di cristallo di rocca.


Sussidiario.

Ho finito di leggere Il corpo di Hanif Kureishi. La storia racconta di uno scrittore di fama a cui viene data l’opportunità di cambiare il proprio corpo con uno più giovane mantenendo intatti ricordi e esperienze passate, rimanendo fondamentalmente se stesso. E’ spinto ad accettare la proposta da un misto di curiosità professionale, egoismo senile e inconsapevolezza; non vuole sapere se per ottenerlo qualcuno ha commesso un reato, a chi sia appartenuto quel giovane corpo, né tanto meno vuole conoscere le conseguenze di quella scelta. Kureishi non chiarisce come avvenga il passaggio, né quali potrebbero essere le conseguenze dell’esperimento in termini sociali e morali.

All too human

Persi in un App, cerchiamo di ritrovare la rotta.

- Siamo scesi alla fermata sbagliata. Ogni posto di questa città si chiama King, Queen o St. James’s?

- Credo di aver sbagliato a digitare la fermata, ma siamo vicini. Andiamo a piedi.

- Perché non andiamo verso Parliament Square? Oggi finalmente non piove. Saremo più vicini all’apertura della mostra. Lasciamo perdere il parco.

- Voglio andare al parco, se continua così non ci andiamo neppure oggi. Visto che non piove approfittiamone.

- Ma è un’ora che giriamo a vuoto! Che traffico! Cosa sarà successo? Ci sarà la visita di qualche politico?

- Non è che a Livorno la mattina sia meglio. Comunque, siamo quasi arrivati.

- Però potevi anche guardare meglio. E’ possibile che non te ne sei accorto?

- Basta! Non me ne sono accorto, va bene? Vogliamo andare o continuiamo a parlarne?

Il suono delle sirene è un sottofondo irritante. Mezzi della polizia e ambulanze continuano a passarci affianco. Dev’essere successo qualcosa. Man mano che ci avviciniamo alla meta, il numero di pedoni aumenta e con loro i poliziotti con i tabarri gialli. Continuiamo la nostra marcia verso St. James’s Park. L’ingresso è chiuso. Ci sono poliziotti ovunque. La fila aumenta e si assottiglia. Iniziamo a vedere i nastri di plastica arancione che delimitano l’area e impediscono l’ingresso al parco; l’unica scelta è imboccare un sentiero diretto a nord. Una sola scelta, un percorso obbligato ci espelle dall’area. Un paddock di filo arancione e poliziotti gialli indicano percorsi obbligati, anzi un solo percorso direzione Green Park Station.

- Perché ci fanno passare da qui?

- Non lo so. Anche per me è nuovo. Camminiamo e basta.

Si vedono solo pedoni, tutti in fila verso nord. La zona è isolata, transennata. Hanno evacuato e chiuso il parco, isolato Buckingham Palace. Lentamente fanno uscire tutti.
Neppure oggi vedremo il laghetto!

Stamani siamo usciti alle otto dal nostro alberghetto a Paddington, direzione St. James’s Park per una passeggiatina mattutina, in attesa che apra la mostra. Abbiamo l’abitudine di tracciare degli itinerari da percorrere a piedi fino ad arrivare ad una meta. Ci prendiamo sempre del tempo, sappiamo che durante il percorso ci imbatteremo in qualcosa non previsto. Qualche via, le più noiose le facciamo in autobus, poi di nuovo a piedi. Non sempre quello che credi di incontrare è quello che veramente vedrai. In Edgware Road ad esempio abbiamo camminato tra colori e odori familiari. Alle otto del mattino abbiamo visto i fruttivendoli sistemare la merce sulle cassette esterne al negozio, piramidi di mele e pesche, il garzone del bar preparare i bracieri per il narghilè. Qui il Mediterraneo non è idea astratta, un lago di problemi di cui non ci si vuole occupare. All too human. Le vie centrali le abbiamo fatte in autobus. Oggi sono lentissimi, c’è un traffico pazzesco, sirene della polizia, ambulanze. Di nuovo a piedi, facciamo prima. E poi c’è questa cosa che chiudono il parco e transennano la zona. Ci spediscono verso Green Park Station. Dobbiamo andare a Millbank! All too human. La carne e la vernice!
La fotografia, i video, le performance mi avevano un po’ distratto dalla pittura. La pittura inglese è prepotentemente ancorata alla realtà, alla identità di genere, all’appartenenza etnica, alle relazioni sociali e politiche, alla fisicità dei corpi. C’è qualcosa di classico. Siamo riusciti ad arrivare muovendoci secondo uno percorso un po’ tortuoso, ma siamo arrivati.
Lucien Freud per tutta la sua esistenza ha condotto una ricerca ossessiva dei dettagli del corpo. Entrare in una stanza accerchiata da corpi nudi, grassi, cadenti di Lucien Freud è impressionante, non lascia spazio a fraintendimenti. Quelli lì siamo tutti noi. Brutti, grassi, vecchi, malati, magrissimi, giovanissimi, bianchissimi, tristi o soli. Siamo proprio tutti noi.



 
 



Sussidiario

Di recente ho visto un documentario. Una delle modelle di Lucien Freud, penso fosse la modella di Sleeping by the Lion Carpet, 1992, raccontava la sua esperienza nell’ambiente creativo londinese degli anni ottanta. Amica e biografa di Leigh Bowery.

 
Freud, Bacon, Kitaij, Auerbach, Saville. Una mostra di carne e vernice. La sala dei dipinti di Auerbach è molto animata. Un ritratto dei primi anni sessanta cattura l’attenzione di molti, soprattutto gli appassionati di pittura materica. Ad attirare l’attenzione è un piccolo quadro, un ammasso di vernice spessa, quasi una scultura. Un signore al mio fianco esulta -It’s a amazing! e con lo sguardo cerca la mia complicità. E’ la prima volta che mi capita di condividere entusiasmo con uno sconosciuto. Di solito si parla con i propri sodali, raramente un estraneo vuole condividere il suo stupore, la sua emozione o disappunto con te, un estraneo, tra l’altro una sconosciuta assolutamente anglo-insufficiente come me. Sorrido e concordo con lui It’s amazing, ha ragione. Un ritratto realizzato con un ammasso di pittura acrilica, trattata come materia plastica. Scatto le mie solite foto diario della memoria, per ricordare Frank Auerbach e il suo appassionato amatore.



 
C’è qualcosa che ho già visto o meglio ricostruito nella mia mente guardando il quadro di Kitaj, Cecil Court, London W.C.2. L’ho immaginato come una scena de Il Budda delle Periferie di Kureishi. Poi mi sono ricordata che anche il grafico e la casa editrice l’hanno scelto per la copertina dei tascabili. Devo aver sovrapposto il ricordo. L’ho sicuramente visto quando ho letto il libro e ora che riguardo le foto della mostra mi sembra ancora più familiare.
Il volto sofferente, enorme e liquido di una giovane donna di Jenny Saville chiude la mostra. L'artista è nota per l’aspetto della sua pittura che attiene al corpo, alla carne, alle sue modificazioni: invecchiamento, mutilazioni, chirurgia plastica, gravidanze, violenza. Reverse (2002-03) è un autoritratto in larga scala, enorme e liquido. Qui si è ritratta distesa su uno specchio, con la testa inclinata per incontrare lo sguardo dello spettatore. Pennellate ampie, un colore zuppo che a stento trattiene lo sgocciolamento. In quello sguardo c'è più dolore, sorpresa, sfida o rassegnato abbandono? La paura, il dolore, il corpo accomunano Saville a Freud che ha però un linguaggio denso, materico, grumoso là dove Saville è liquido, veloce, acido.


 

 
Mi fermo ancora una volta a guardare Tree Studies for Figures at the Base of a Crocifission (1944) di Francis Bacon.
 

Tutto ciò che accade in queste sale è letterario, separato. Siamo in una piccola navicella spaziale, il mondo fuori non esiste, ci siamo noi e il mondo dentro di noi. Poi usciamo dalla navicella spazio-temporale e la realtà si mostra in tutto il suo disordine. In Parliament Square c’era stato un attentato. Era questo il motivo di tutto quel dirottare pedoni verso nord, chiudere al traffico automobilistico, gli autobus lenti, l’isolamento di Buckingham Palace e la chiusura del parco. Quel giorno non sarebbe finita lì. Mentre un povero pazzo tentava di spianare pedoni fuori dal Parlamento, senza fare danni troppo gravi, da un'altra parte, vicino casa i danni sarebbero stati più ingenti, i fatti più dolorosi. In un altro mare, il nostro, cadeva un ponte. Anche questo lo sapemmo per caso, più tardi. Da quel giorno ogni volta che vedo un dipinto di Lucian Freud ricordo le braccia spezzate del Ponte Morandi.
ARC
  






[1] Mario Luzi, Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, 1994

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