venerdì 19 luglio 2024

Conversazione con Tatiana Villani (II parte)


Questa seconda parte del nostro incontro è il racconto di alcuni progetti relazionali  a base partecipativa, azioni collettive, progetti a lunga durata e progetti brevi, infine il racconto di alcuni progetti sviluppati in studio.


ARC – Parliamo dei progetti relazionali a base partecipativa. Non sempre sono soddisfacenti nella restituzione, a volte si ha la sensazione di un fallimento. Raccontami di un progetto relazionale che ti ha soddisfatto pienamente, dove tutto ciò che volevi realizzare si è compiuto.

TV – Ho lavorato a progetti soprattutto lunghi. Ho fatto anche dei progetti brevi, mi viene in mente un progetto che si chiamava (dis)cover (2015). Avevo vinto un bando per The Others a Torino, in cui sceglievano quattro performer per la fiera. Avevo proposto un luogo nascosto, all’interno della fiera, quindi esattamente il contrario dell’esposizione. Dietro una tenda i visitatori entravano uno per volta, all’interno c’eravamo soltanto io e la persona separati da una tenda e ci scambiavamo i vestiti. C’era questa idea di mettersi nei panni dell'altro, fisicamente, che è bellissimo da dire ma bruttissimo da fare. Per tanti motivi: uno, perché non è sempre possibile, i panni degli altri possono stare o non stare, che non è banale; due, perché si crea un certo rapporto con il disgusto, fa caldo, sudi e tu ti metti la roba di un altro. In certe cose ci stai troppo largo, in altre non c’entri. La mia idea di mettersi nei panni degli altri era proprio quella di sfatare il mito dell’empatia. Che è una grandissima sciocchezza. Si dice molto facilmente mi metto nei tuoi panni. Per mettermi nei tuoi panni io mi devo rendere conto che non siamo uguali, devo veramente riconoscere la distanza. Se mi immagino che abbiamo punti di vista diversi, corpi diversi, voci diverse forse posso mettermi in ascolto. E più di quello non posso fare. Mi sembrava un atto di consapevolezza per me e per gli altri.


One to One, performance, The Others, 2015,
 a cura di Alessandra Ioalè,
 proposto da Passaggi Arte Contemporanea

ARC – Secondo te come è stato percepito dalle persone che partecipavano?

TV – In tanti modi. Chi più emotivo, chi più curioso, chi più schizzinoso, chi non voleva assolutamente mettersi nei tuoi panni, chi sarebbe arrivato agli slip. Io avevo chiesto: no la biancheria.

ARC – L’arte contemporanea ha portato le persone a scoprire che possono partecipare, relazionarsi con l’artista, mettersi in opera. Si è sviluppata una certa abitudine, quasi un gioco, per qualcuno è un bisogno di esibirsi.

TV -In questo caso no, non li vedeva nessuno, non li vedevo neanch’io.

ARC - Quindi era un rapporto con se stessi

TV – C’era questo paradosso del (dis)cover, scoprire, perché ti spogliavi ma non ti vedeva nessuno. Questa scoperta nel segreto. Mi interessava perché in quell'edizione The Others era una prigione, la prigione è il luogo del nascosto per eccellenza. Una fiera invece è il luogo delle esposizioni. La mia scelta di fatto mi ha portato a non avere tantissimi visitatori. Le relazioni non erano temporizzate, quindi le persone potevano stare dieci minuti, come mezz’ora. Quando entravano, non sapevano cosa avrebbero trovato.


Discover


ARC Un progetto che non hai completato, che in qualche modo ti ha deluso perché non sei riuscita a trovare quella relazione che cercavi?

TV – Non so. A volte durano così tanto che ho tutto il tempo per tornarci. (dis)cover era un progetto puntiforme, che ho realizzato in tre posti diversi. Quindi è stata un’esperienza ripetuta ma puntiforme. Altri vanno avanti per mesi o anni. In quei mesi o anni hai tutto il tempo di ritornarci, ampliare, stringere, pulire, cambiare.

ARC – Parliamo di uno di questi progetti lunghi, in che modo hai potuto ritornarci, ampliare, cambiare? 

TV – Ad esempio mi viene in mente il Trecciato che è andato avanti per cinque anni in modo intenso, tutt’ora non è dichiarato chiuso. E' un lavoro co-autoriale. Noi come co-autrici ci siamo continuamente riaggiustate ed è cambiato in base all’utenza.

ARC – Mi vuoi raccontare il progetto?


Fuori dal trecciato, 2015, Artforms,
 foto Manuela Mancioppi


TV – Fuori dal Trecciato (2015) era un gioco di parole, perché era fuori dal tracciato e costruito con delle trecce. Ci era stato chiesto di fare un intervento pubblico di relazione, partecipativo, nell’area pratese, abbiamo scelto di utilizzare scarti dell'industria tessile, in uno spazio nuovo che inaugurava con quest’opera. Lo spazio si chiamava Artforms a Prato. Eravamo Emanuela Baldi, Manuela Mancioppi ed io. Quasi da subito abbiamo deciso di unire altri progetti al progetto, abbiamo deciso di contattare un curatore con cui non avevamo mai lavorato, Matteo Innocenti. E’ stata buffissima la fase iniziale perché nessuna di noi era di Prato, quindi facevamo gli incontri in un baretto vicino alla stazione. Sembrava uno speed dating, la gente veniva si sedeva, parlavamo, poi andava e si sedeva un altro e si passava ad un altro ancora. E noi stavamo sempre lì.

ARC – Poteva essere già questo un opera relazionale?

TV – Già. C’erano queste persone che andavano e venivano. E’ così che abbiamo conosciuto Matteo in speed dating.

Con lui era nata l’idea di farci accompagnare verbalmente nei processi in modo che la sua storia, raccontata a parole, cambiasse nel tempo assieme al lavoro. Lui ha scritto Four easy pieces, dei pezzi legati alla narrazione del trecciato che cambiavano quando il trecciato si muoveva, ed era in itere con il progetto stesso. 
Oltre a questo lavoro sulla parola scritta si associava un lavoro di Valentina Lapolla che è un’artista con cui lavoro moltissimo. Tutt’ora con lei faccio parte di due collettivi. E’ una di quelle persone con cui mi confronto continuamente. A Valentina avevamo chiesto di costruire un progetto sul progetto del Trecciato. Di trovare una forma di restituzione all’azione che stavamo costruendo. All’inizio pensavo avrebbe lavorato col video o foto, perché erano alcuni dei linguaggi suoi più tipici, invece ha deciso di fare una registrazione audio e, di restituire tutta la parte immateriale dell’audio prodotto con le relazioni, modificata con un algoritmo e restituita come vibrazione creata da oggettini di merceria, da chincaglierie, che producevano un suono che era la trasformazione algoritmica del suono delle relazioni. Quindi anche Chincaglierie ha seguito il progetto nelle varie sedi e nelle varie fasi.

ARC – Un progetto potenzialmente infinito. Durerà finché non decidete di chiuderlo. In quali altre spazi è stato realizzato?

TV – Dopo Artforms ci hanno chiesto vari interventi più o meno grandi, a volte erano partecipazioni a mostre collettive e musei o in spazi non istituzionali per cui veniva rimontato una parte di trecciato, a volte ci chiedevano un intervento partecipativo più lungo. Il primo lo abbiamo fatto a Vernio (Po) per il progetto Opera Aperta dell'Associazione Momo. Al Museo delle Macchine Tessili dove c’erano diverse cose da considerare, perché avremmo lavorato con delle persone affette da Alzheimer, quindi un’utenza specifica, all’interno di uno spazio museale, con oggetti preziosi che non si potevano toccare ma che dovevano interagire con il lavoro.
Li è nato Intrecci e grovigli (2016) che è uno spin off di Fuori dal trecciato. La prima cosa che ci è venuta in mente è questa cancellazione della memoria tipica della malattia in sé, però non volevamo considerarla solo una perdita e, non volevamo fare il lavoro con le persone anziane in cui loro fossero attori, volevamo che fossero produttori. Abbiamo aiutato a creare dei grovigli e all’interno dei grovigli venivano messi degli oggetti di affezione. I grovigli in una certa misura cancellavano, la presenza dell’oggetto e in qualche misura lo proteggevano. Abbiamo lavorato con delle scuole elementari e dell’infanzia, con loro abbiamo fatto un lavoro simile. In una fase successiva, sempre in Intrecci e grovigli abbiamo deciso di lavorare con i sassi di fiume che naturalmente vengono erosi, quindi abbiamo raccolto i sassi del Bisenzio, il fiume era fondamentale per l'uso delle macchine tessili. Tutta l’industria tessile nasceva di fianco ai fiumi. I sassi si corrodono con il passaggio dell’acqua, ci sembrava una metafora interessante dell’età e della malattia. Le persone con cui lavoravamo avevano lavorato nell’indotto tessile. Abbiamo portato nelle RSA i sassi, gli abbiamo chiesto di scrivere una parola che sarebbe stata poi ricoperta.

Intrecci e grovigli, 2016,
 partecipazioni, foto Manuela  Mancioppi


ARC – Le persone che partecipavano erano sempre anziani e bambini?

TV – In questo caso sì. A Prato erano passanti. Anche i sistemi di chiamata erano particolari. Ne abbiamo applicati vari, perché quando fai partecipazione devi avere dei sistemi di chiamata e devi capire a chi ti stai rivolgendo. In quel caso lo avevo specificato perché era per un tipo di partecipante specifico, ci avevano chiesto di lavorare con bambini e anziani affetti da Alzheimer. Nasceva come opera aperta.

ARC – In quali altri luoghi avete portato Fuori dal Trecciato?

TV - A Casa Masaccio, San Giovanni Valdarno

L’installazione è stata montata per tutta Casa Mannozzi. Avevamo tre piani di Palazzo Mannozzi, un palazzo del Seicento totalmente coperto di trecciato, alcuni pezzi uscivano dalle finestre. Poi abbiamo fatto delle performance sia all’interno dello spazio, sia all’esterno. C’erano dei video in cui si raccontava la crescita dell'installazione nei vari periodi. In questo caso si chiamava Fuori dal trecciato dentro Casa Mannozzi.

ARC – La difficoltà dell’opera partecipata è proprio intercettare le persone in un contesto dove non vivi, non fai parte della comunità. Spesso il fallimento di alcuni progetti nasce a monte, nell’utilizzare sistemi di chiamata errati.

TV – Spesso quando si fanno progetti di partecipazione non si tiene conto del tempo e non si fanno le giuste chiamate.
Quando abbiamo fatto Prato, era la prima volta, avevamo usato delle immagini fotografiche, molto belle, che abbiamo collocato in città, manifesti molto grandi in cui c’erano i giorni di chiamata. Abbiamo usato anche i social e poi avevamo fatto dei percorsi dove avevamo annodato dei tessuti per strada, ad esempio dalla stazione fino ad Artforms, dalla piazza fino ad Artforms. Quindi ci sono stati dei giorni che abbiamo dedicato a costruire dei percorsi tipo Pollicino. Le partecipazioni sono durate per due mesi. Un tempo molto lungo. Erano aperte a chiunque, tutti volontari. In quel caso non volevamo avere un’utenza specifica, non l’abbiamo richiesta, non abbiamo avuto tirocinanti. La cosa buffa che invece è capitata, è che alcune persone vista la chiamata sui social avessero deciso di portare utenze specifiche. Un operatore psichiatrico si è presentato con 5 suoi pazienti.


Fuori dal trecciato, 2015, Artforms manifesto,
dispositivi di chiamata,foto Rachel Morellet


ARC – Questa è una cosa particolare, effettivamente, non penso accada spesso. Voi come avete preso l’iniziativa?

TV – Per noi è stato ovviamente un successo, perché la maggior parte di questi progetti lavorano su comunità preordinate. Dal mio punto di vista non è sempre interessante.

ARC – Mi pare però che le reti che intrecciano altre reti scongiurino certi fallimenti.

TV – Per questo dò tanta importanza al tempo e ai sistemi di chiamata. Sono esigenze inderogabili. Ad esempio, un altro progetto partecipativo con una performance in Molise, in una residenza Vis à vis di Limiti Inchiusi a cura di Matteo Innocenzi e Silvia Valente. In quel caso c’era un tempo limite, quindici-venti giorni ed ero in ansia. Trovai questo sistema, subito, nei primi giorni, di solito gli annunci alla popolazione del paese, che era piccolo, San Giuliano del Sannio, si davano attraverso il vigile che parlava al megafono dal campanile della chiesa.

Ho scritto la chiamata per il vigile che ripeteva: <<L’artista Villani Tatiana tutti i giorni dall’ora tot all’ora tot, nel posto tot vi aspetta, prendete appuntamento, raccontate la vostra storia.>> 
Mi era stato concesso un piccolo teatrino di fianco al Palazzo comunale della città, le persone si prenotavano. Avevano anche lì un tempo illimitato. Si mettevano di fronte a me. Io ero totalmente chinata perché usavo la camera lucida, una camera ottica per ritratte velocemente i contorni di queste persone, mentre facevo delle domande. Quindi le persone parlavano da sole.

ARC – Come in (dis) cover un rapporto con se stessi. Non avevano te come punto di riferimento. Come si intitola questo lavoro?

TV – Tra le pieghe. Era tutto un lavoro sull’utopia. Il tentativo di costruire il ritratto delle persone singole, per costruire il ritratto di una comunità. Ovviamente era un’utopia perché era impossibile che io costruissi il ritratto di tutti i paesani. Era già destinato a fallire. L’utopia in sé prevede il fallimento. Mi piace pensarlo aperto. Anche qui ritorna la questione della simpoiesis e della simbiosi. Questa nuova lettura mi permette di sistematizzare.

ARC – Usi tutti i linguaggi, i lavori in studio sono comunque oggetti scultorei, fotografie, video, installazioni non prevedono uno scambio fisico e intellettuale con l’altro, se non a opera finita. Come affronti i lavori in studio?

TV – Sì, uso molti linguaggi. Perché vuol dire che c’era qualcosa che mi incuriosiva che nel tempo della relazione non poteva essere indagato a lungo. Immaginavo un link con un materiale e cominciavo ad esplorarlo. Questa esplorazione è biunivoca: in parte sono io che impongo alla materia la mia volontà, in parte è la materia che mi restituisce delle cose che io devo accettare. Un po’ perché la materia fa come gli pare, più o meno, (sorriso) un po’ perché mi restituisce delle cose inaspettate di cui prendo atto e da cui riparto. Come un lavoro rizomatico in cui ogni cosa scatena una altra cosa, una reazione. 
Mi piace fare dei lavori molto complicati dal punto di vista delle combinazioni ma che abbiano un aspetto semplice: che abbiano qualcosa di familiare e allo stesso tempo di inaspettato, che ti diano la possibilità di agganciarti a qualcosa di noto e insieme una combinazione spericolata. Mi piace lavorare sui limiti della tecnologia, sui limiti del materiale, sulle combinazioni improbabili che danno insieme questa combinazione di comfort e fastidio, seduzione, piacevolezza e disgusto.

ARC – Come sei arrivata a opere a base scultorea?

TV – La mia pittura all'inizio era già estremamente materica. Era già scultura. Non c’è stato un salto. Quando feci Körperland nel 2016, c’erano questi lavori che erano fotografici, però erano anche pittorici: carta riciclata, fotografia che sembra in bianco e nero su tela, con una finitura pittorica finale. Li ho presentati di recente a Lucca, al Mercato del Carmine, per Giungla Radicale a cura di Irene Panzani. All'inizio ho costruito questa terra dei corpi (2009), piano piano queste forme hanno generato delle sculture in creta. Nel 2016 non portai delle sculture in creta, ma dei bozzoli di gomma siliconica in cui dentro c’era una scultura di creta cruda.

ARC – Stavano per nascere.

TV – Questo rapporto tra il nato e il non nato, queste forme mostruose, sono tanto vicine a questo lavoro qui. Siamo nel 2016.

Körperland, 2016,
presso Passaggi Arte Contemporanea, Pisa
foto Dania Gennai


ARC – E’ un lavoro che nasce nel tempo. Si innestano vari medium e hanno una gestazione lunga.

TV – Evolve, sempre con vari i linguaggi. Da Körperland a qui ho continuato a lavorare con la fotografia, è nato il progetto Estrusione, è cominciato il collettivo ToccaUnoToccaTutti, ho lavorato sui semi, è nato il collettivo FAMA (Four Artists for a metastable Art), che nasce proprio nel 2016, in questo lavoro sulla metastabilità che come concetto, fisico, sociologico, neurologico ci sembrava molto interessante. L’idea di qualcosa che cambia stato per effetto dell’immissione di energia. E’ metastabile perché è stabile un periodo di tempo, poi cambierà.

ARC - Fluidità, instabilità, cambiamento… sei un elettrone (rido)

TV – (ride) Non proprio, però abbiamo fatto un lavoro sulla particella fantasma Ghost Attractor. La particella si chiama Attrattore di Lorenz, è una particella che cambia il comportamento della materia ma che non viene rilevata, come un fantasma. Gli scienziati dicono in questo punto ci deve essere un Attrattore di Lorenz, anche se non si vede, perché la materia si sta comportando in questo modo.

ARC - In cosa consiste Ghost actrattor? Parlami del progetto.

TV – Era fatto con le FAMA (Four Artists for a metastable Art), questo collettivo di quattro donne: Rachel Morellet, Eva Sauer, Valentina Lapolla ed io, che lavoriamo sulla metastabilità, ognuno con le sue caratteristiche, il suo linguaggio, non è co-autoriale. Per Ghost actrattor portai due lavori uno dei quali sull’intelligenza artificiale. Noi pensiamo che l’intelligenza artificiale sia neutra, in realtà no, c’è un training e, il training passa tutti quanti i pregiudizi del trainer
Avevo costruito questa serie che si chiama Pecore elettriche, dedicandola a Philip K. Dick. Il fantasma, in questo caso è il trainer e sono i dataset fallati alla base dal pregiudizio. Il secondo lavoro si chiamava Specchio riflesso, ed era un lavoro fotografico. In quel periodo stavo facendo un lavoro che non ho mai finito, un’altra cosa - come dicevo la materia ti porta da un’altra parte e ti tocca riconoscerla quando la trovi – perché ero affascinata dalla magia in rete.

Pareidolia 01, fotografia digitale
prodotta con una GAN net, 2020


ARC - Questo elemento esoterico, religioso, magico c’è anche in altri tuoi lavori.

TV – Elemento magico legato alla tecnologia. E’ una cosa che fa ridere ma lo è tantissimo. Umberto Eco diceva “Quando la tecnologia diventa così lontana dalle nostre competenze, cominciamo a trattarla come un oggetto magico”. Diventiamo panteisti: “il computer è morto”…

ARC – Il virus è la sua malattia…

TV – Ho attivato questo rapporto magico con la tecnologia, realizzando performance nascosta dal mezzo, da mandare poi in rete. Per farlo mi filmavo, mi fotografavo. Poi non l’ho più finito perché è andata così (ride). Chissà! In realtà ho un’idea per la formalizzazione, non ho avuto l’occasione per realizzarla. Ho anche i materiali, dipende da cosa succede.

ARC – Del resto tanti tuoi lavori sono aperti, non si concludo o in tempi brevi. Ma come arrivi a Specchio riflesso?

TV – Stavo facendo questa cosa e usavo la macchinetta comandata dal cellulare, in modo che io vedessi cosa vedeva la macchinetta e potessi muovermi, per decidere gli scatti. Mentre facevo questa operazione, vedevo che, se il cellulare si metteva di fronte alla macchinetta, cominciava a darmi dei Bag. Quando si guardavano, entravano in dialogo, si creava una mise en abyme fino a quando l’immagine non era più quello che si trovava di fronte al cellulare, ma diventava una schermata nera piena di simboli. Le macchine messe in dialogo, parlano un’altra lingua.

ARC – Parlano tra di loro una lingua a noi sconosciuta. Inquietante!

TV – Di solito la restituzione che ci danno è per i nostri occhi, a noi comprensibile.

ARC – Come del resto fa il santone, il sacerdote, lo stregone.

TV – Quando parlavano tra di loro non avevano più bisogno di quel linguaggio. E’ così che nasce Specchio riflesso.

ARC – Direi che possiamo chiude qui.

TV – Andiamo a prendere un gelato.

ARC


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