Questa seconda parte del nostro incontro è il racconto di alcuni progetti relazionali a base partecipativa, azioni collettive, progetti a lunga durata e progetti brevi, infine il racconto di alcuni progetti sviluppati in studio.
ARC –
Parliamo dei progetti relazionali a base partecipativa. Non sempre sono
soddisfacenti nella restituzione, a volte si ha la sensazione di un fallimento. Raccontami di un
progetto relazionale che ti ha soddisfatto pienamente, dove tutto ciò che
volevi realizzare si è compiuto.
TV – Ho lavorato
a progetti soprattutto lunghi. Ho fatto anche dei progetti brevi, mi viene in
mente un progetto che si chiamava (dis)cover
(2015). Avevo vinto un bando per The
Others a Torino, in cui sceglievano quattro performer per la fiera. Avevo
proposto un luogo nascosto, all’interno della fiera, quindi esattamente il
contrario dell’esposizione. Dietro una tenda i visitatori entravano uno per
volta, all’interno c’eravamo soltanto io e la persona separati da una tenda e
ci scambiavamo i vestiti. C’era questa idea di mettersi nei panni dell'altro,
fisicamente, che è bellissimo da dire ma bruttissimo da fare. Per tanti motivi:
uno, perché non è sempre possibile, i panni degli altri possono stare o non
stare, che non è banale; due, perché si crea un certo rapporto con il disgusto,
fa caldo, sudi e tu ti metti la roba di un altro. In certe cose ci stai troppo
largo, in altre non c’entri. La mia idea di mettersi nei panni degli altri era
proprio quella di sfatare il mito dell’empatia. Che è una grandissima
sciocchezza. Si dice molto facilmente mi metto nei tuoi panni. Per mettermi nei
tuoi panni io mi devo rendere conto che non siamo uguali, devo veramente
riconoscere la distanza. Se mi immagino che abbiamo punti di vista diversi,
corpi diversi, voci diverse forse posso mettermi in ascolto. E più di quello
non posso fare. Mi sembrava un atto di consapevolezza per me e per gli altri.
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One to One, performance, The Others, 2015, a cura di Alessandra Ioalè, proposto da Passaggi Arte Contemporanea |
ARC –
Secondo te come è stato percepito dalle persone che partecipavano?
TV – In tanti
modi. Chi più emotivo, chi più curioso, chi più schizzinoso, chi non voleva
assolutamente mettersi nei tuoi panni, chi sarebbe arrivato agli slip. Io avevo
chiesto: no la biancheria.
ARC –
L’arte contemporanea ha portato le persone a scoprire che possono partecipare,
relazionarsi con l’artista, mettersi in opera. Si è sviluppata una certa abitudine, quasi un gioco, per qualcuno è
un bisogno di esibirsi.
TV -In questo
caso no, non li vedeva nessuno, non li vedevo neanch’io.
ARC -
Quindi era un rapporto con se stessi
TV – C’era
questo paradosso del (dis)cover,
scoprire, perché ti spogliavi ma non ti vedeva nessuno. Questa scoperta nel
segreto. Mi interessava perché in quell'edizione The Others era una prigione, la prigione è il luogo del nascosto
per eccellenza. Una fiera invece è il luogo delle esposizioni. La mia scelta di
fatto mi ha portato a non avere tantissimi visitatori. Le relazioni non erano
temporizzate, quindi le persone potevano stare dieci minuti, come mezz’ora.
Quando entravano, non sapevano cosa avrebbero trovato.
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Discover |
ARC – Un progetto che non hai completato, che in qualche modo ti ha deluso perché non sei riuscita a trovare quella relazione che cercavi?
TV – Non so. A
volte durano così tanto che ho tutto il tempo per tornarci. (dis)cover era un progetto puntiforme,
che ho realizzato in tre posti diversi. Quindi è stata un’esperienza ripetuta
ma puntiforme. Altri vanno avanti per mesi o anni. In quei mesi o anni hai
tutto il tempo di ritornarci, ampliare, stringere, pulire, cambiare.
ARC – Parliamo di uno di questi progetti lunghi, in che modo hai potuto ritornarci, ampliare, cambiare?
TV – Ad esempio
mi viene in mente il Trecciato che è
andato avanti per cinque anni in modo intenso, tutt’ora non è dichiarato
chiuso. E' un lavoro co-autoriale. Noi come co-autrici ci siamo continuamente
riaggiustate ed è cambiato in base all’utenza.
ARC – Mi
vuoi raccontare il progetto?
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Fuori dal trecciato, 2015, Artforms, foto Manuela Mancioppi |
TV – Fuori dal Trecciato (2015) era un gioco
di parole, perché era fuori dal tracciato e costruito con delle trecce. Ci era
stato chiesto di fare un intervento pubblico di relazione, partecipativo,
nell’area pratese, abbiamo scelto di utilizzare scarti dell'industria tessile,
in uno spazio nuovo che inaugurava con quest’opera. Lo spazio si chiamava Artforms a Prato. Eravamo Emanuela Baldi, Manuela Mancioppi ed
io. Quasi da subito abbiamo deciso di unire altri progetti al progetto, abbiamo
deciso di contattare un curatore con cui non avevamo mai lavorato, Matteo Innocenti. E’ stata buffissima
la fase iniziale perché nessuna di noi era di Prato, quindi facevamo gli
incontri in un baretto vicino alla stazione. Sembrava uno speed dating, la gente veniva si sedeva, parlavamo, poi andava e si
sedeva un altro e si passava ad un altro ancora. E noi stavamo sempre lì.
ARC –
Poteva essere già questo un opera relazionale?
TV – Già.
C’erano queste persone che andavano e venivano. E’ così che abbiamo conosciuto
Matteo in speed dating.
ARC – Un progetto potenzialmente infinito. Durerà finché non decidete di chiuderlo. In quali altre spazi è stato realizzato?
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Intrecci e grovigli, 2016, partecipazioni, foto Manuela Mancioppi |
ARC – Le persone che partecipavano erano sempre anziani e bambini?
TV – In questo
caso sì. A Prato erano passanti. Anche i sistemi di chiamata erano particolari.
Ne abbiamo applicati vari, perché quando fai partecipazione devi avere dei
sistemi di chiamata e devi capire a chi ti stai rivolgendo. In quel caso lo
avevo specificato perché era per un tipo di partecipante specifico, ci avevano
chiesto di lavorare con bambini e anziani affetti da Alzheimer. Nasceva come
opera aperta.
ARC – In quali altri luoghi avete portato Fuori dal Trecciato?
TV - A Casa Masaccio, San Giovanni Valdarno.
ARC – La
difficoltà dell’opera partecipata è proprio intercettare le persone in un
contesto dove non vivi, non fai parte della comunità. Spesso il fallimento di
alcuni progetti nasce a monte, nell’utilizzare sistemi di chiamata errati.
ARC – Questa è una cosa particolare, effettivamente, non penso accada spesso. Voi come avete preso l’iniziativa?
TV – Per noi è
stato ovviamente un successo, perché la maggior parte di questi progetti
lavorano su comunità preordinate. Dal mio punto di vista non è sempre
interessante.
ARC – Mi
pare però che le reti che intrecciano altre reti scongiurino certi fallimenti.
TV – Per questo
dò tanta importanza al tempo e ai sistemi di chiamata. Sono esigenze
inderogabili. Ad esempio, un altro progetto partecipativo con una performance
in Molise, in una residenza Vis à vis
di Limiti Inchiusi a cura di Matteo
Innocenzi e Silvia Valente. In quel caso c’era un tempo limite, quindici-venti
giorni ed ero in ansia. Trovai questo sistema, subito, nei primi giorni, di
solito gli annunci alla popolazione del paese, che era piccolo, San Giuliano
del Sannio, si davano attraverso il vigile che parlava al megafono dal
campanile della chiesa.
ARC – Come
in (dis) cover un rapporto con se
stessi. Non avevano te come punto di riferimento. Come si intitola questo
lavoro?
TV – Tra le pieghe. Era tutto un lavoro
sull’utopia. Il tentativo di costruire il ritratto delle persone singole, per
costruire il ritratto di una comunità. Ovviamente era un’utopia perché era
impossibile che io costruissi il ritratto di tutti i paesani. Era già destinato
a fallire. L’utopia in sé prevede il fallimento. Mi piace pensarlo aperto.
Anche qui ritorna la questione della simpoiesis
e della simbiosi. Questa nuova
lettura mi permette di sistematizzare.
ARC – Usi
tutti i linguaggi, i lavori in studio sono comunque oggetti scultorei,
fotografie, video, installazioni non prevedono uno scambio fisico e
intellettuale con l’altro, se non a opera finita. Come affronti i lavori in
studio?
ARC – Come
sei arrivata a opere a base scultorea?
TV – La mia
pittura all'inizio era già estremamente materica. Era già scultura. Non c’è
stato un salto. Quando feci Körperland nel 2016, c’erano questi lavori
che erano fotografici, però erano anche pittorici: carta riciclata, fotografia
che sembra in bianco e nero su tela, con una finitura pittorica finale. Li ho
presentati di recente a Lucca, al Mercato del Carmine, per Giungla Radicale
a cura di Irene Panzani. All'inizio ho costruito questa terra dei corpi
(2009), piano piano queste forme hanno generato delle sculture in creta. Nel
2016 non portai delle sculture in creta, ma dei bozzoli di gomma siliconica in
cui dentro c’era una scultura di creta cruda.
ARC –
Stavano per nascere.
TV – Questo rapporto tra il nato e il non nato,
queste forme mostruose, sono tanto vicine a questo lavoro qui. Siamo nel 2016.
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Körperland, 2016, presso Passaggi Arte Contemporanea, Pisa foto Dania Gennai |
ARC – E’ un lavoro che nasce nel tempo. Si innestano vari medium e hanno una gestazione lunga.
TV – Evolve,
sempre con vari i linguaggi. Da Körperland
a qui ho continuato a lavorare con la fotografia, è nato il progetto Estrusione, è cominciato il collettivo ToccaUnoToccaTutti, ho lavorato sui
semi, è nato il collettivo FAMA (Four
Artists for a metastable Art), che nasce proprio nel 2016, in questo lavoro
sulla metastabilità che come concetto, fisico, sociologico, neurologico ci
sembrava molto interessante. L’idea di qualcosa che cambia stato per effetto
dell’immissione di energia. E’ metastabile perché è stabile un periodo di
tempo, poi cambierà.
ARC -
Fluidità, instabilità, cambiamento… sei un elettrone (rido)
TV – (ride) Non proprio, però abbiamo fatto un
lavoro sulla particella fantasma Ghost Attractor. La
particella si chiama Attrattore di Lorenz,
è una particella che cambia il comportamento della materia ma che non viene
rilevata, come un fantasma. Gli scienziati dicono in questo punto ci deve
essere un Attrattore di Lorenz, anche se non si vede, perché la materia si sta
comportando in questo modo.
ARC - In
cosa consiste Ghost actrattor?
Parlami del progetto.
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Pareidolia 01, fotografia digitale prodotta con una GAN net, 2020 |
ARC - Questo elemento esoterico, religioso, magico c’è anche in altri tuoi lavori.
TV – Elemento
magico legato alla tecnologia. E’ una cosa che fa ridere ma lo è tantissimo.
Umberto Eco diceva “Quando la tecnologia diventa così lontana dalle nostre
competenze, cominciamo a trattarla come un oggetto magico”. Diventiamo
panteisti: “il computer è morto”…
ARC – Il
virus è la sua malattia…
TV – Ho attivato
questo rapporto magico con la tecnologia, realizzando performance nascosta dal mezzo, da mandare poi in rete. Per farlo
mi filmavo, mi fotografavo. Poi non l’ho più finito perché è andata così
(ride). Chissà! In realtà ho un’idea per la formalizzazione, non ho avuto
l’occasione per realizzarla. Ho anche i materiali, dipende da cosa succede.
ARC – Del
resto tanti tuoi lavori sono aperti, non si concludo o in tempi brevi. Ma come
arrivi a Specchio riflesso?
TV – Stavo
facendo questa cosa e usavo la macchinetta comandata dal cellulare, in modo che
io vedessi cosa vedeva la macchinetta e potessi muovermi, per decidere gli
scatti. Mentre facevo questa operazione, vedevo che, se il cellulare si metteva
di fronte alla macchinetta, cominciava a darmi dei Bag. Quando si guardavano,
entravano in dialogo, si creava una mise
en abyme fino a quando l’immagine non era più quello che si trovava di
fronte al cellulare, ma diventava una schermata nera piena di simboli. Le
macchine messe in dialogo, parlano un’altra lingua.
ARC –
Parlano tra di loro una lingua a noi sconosciuta. Inquietante!
TV – Di solito
la restituzione che ci danno è per i nostri occhi, a noi comprensibile.
ARC – Come
del resto fa il santone, il sacerdote, lo stregone.
TV – Quando
parlavano tra di loro non avevano più bisogno di quel linguaggio. E’ così che
nasce Specchio riflesso.
ARC – Direi
che possiamo chiude qui.
TV – Andiamo a
prendere un gelato.
ARC
Per approfondimenti:
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