Sussidiario
Era esposta all’esterno del Museo della Città, Arte Contemporanea, di Livorno, come annuncia la targa sul muro: Polo Culturale Bottini dell'olio, Luogo Pio. E' stata rubata. Si tratta di un'opera di
Ruth Beraha Io non posso entrare (Autoritratto). L'opera, sul tema della discriminazione e dell'inclusione, consiste in
una targa di ottone specchiato con incisa la frase “Vietato l’ingresso agli
ebrei e agli omosessuali”.
Prima del furto, poco dopo l'inaugurazione, lo scorso 30 aprile è
stata vandalizzata o come si è giustificato il ragazzo che ha compiuto il gesto
"censurata" con una bomboletta spray nera.
Tra il 16 e il 17 luglio è sparita.
Tra il 16 e il 17 luglio è sparita.
Questo è esattamente quello che accade alle persone discriminate. C'è un momento in cui vengono violate, offese, picchiate poi una notte, nel silenzio generale, spariscono. Infondo, l'opera di Ruth Beraha, con l'aiuto di inconsapevoli cialtroni, ladri, situazionisti fuori tempo massimo, goliardi che non fanno ridere nessuno, incarna l'essere discriminato. Maltrattata, silenziata poi, sparita, come migliaia di esseri umani perseguitati nel mondo.
E' evidente che il ragazzo con la bomboletta spray ha visto solo il messaggio e lo ha interpretato alla lettera. Ha pensato ad una amministrazione razzista, una bibliotecaria omofoba, una direttrice di museo accondiscendente ad un potere separatista e ha pensato bene di agire, su chi? Sulle vittime. Non ha
analizzato il contesto, non ha osservato con attenzione il materiale con il
quale l'opera è stata realizzata: una targa di ottone generalmente non viene utilizzata per cartelli
comunicanti divieti, censure, obblighi, piuttosto per indicare la presenza di un ufficio pubblico o di un professionista. Insomma non si è fatto domande, ha
reagito d'impulso. Non so se i ladri che l'hanno rubata in seguito siano stati
guidati dalla stessa spinta giustizialista, sta di fatto che dal 17 luglio
l'opera non occupa più la parete di fianco l'ingresso dei Musei Civici
Livornesi. Possiamo essere tutti sereni, tolta l’opera della Beraha la nostra
vita è ritornata ad essere serena: il mare, il sole. Possiamo
continuare a dipingere marine, bovini maremmani, fotografare tramonti, nuvole e
fingere che certe “cattiverie” da noi non hanno asilo. Invece, senza quella targa siamo
tornati ad essere culturalmente infinitamente più poveri. Quella targa dialogava a distanza con le pietre d'inciampo sulle quali cammino ogni volta che esco di casa e passo in Via Verdi. A proposito, si stanno consumando, i nomi incisi si leggono con sempre più fatica. Se Ruth Beraha avesse fotografato un tramonto, non sarebbe
accaduto niente, invece, ha voluto sollecitare una riflessione su tutti i
razzismi e le discriminazioni. Lo ha fatto scegliendo in particolare di
nominare nel suo “divieto di ingresso”, due specifiche categorie, la cui
discriminazione è tristemente riconosciuta. Non so se questi accadimenti siano collegati alla scarsa importanza che
si da all'insegnamento della storia dell'arte moderna e contemporanea o alla
superficialità con cui si affronta la storia annichiliti dal "mi piace". Forse
abbiamo finito per non dare importanza a tutte quelle cose che nutrono il
nostro sentire: libri, cinema, musica, arte (anche quella concettuale). Ci
siamo appiattiti sui messaggi e sulle didascalie che hanno finito per produrre
tifoserie. Risultato indifferenza per un'opera dapprima vandalizzata e poi rubata. Era solo una targa d'ottone. Dov'è la bellezza?
Centro Pecci per l'Arte Contemporanea, Prato. Night Fever. Designing Club Culture 1960 - Today. Guardo ipnotizzata un
video, la ballerina si muove ad un ritmo sincopato, sembra una discendente della
Venere di Willendorf impegnata in una danza scatenata in un club londinese anni
Ottanta. Un copricapo realizzato con lunghi fili dorati avvolge completamente testa e viso,
un baby-doll rosso scintillante serra e conforma un torace pingue, un perizoma villoso
definisce un pube femminile celando i genitali maschili. Questo corpo massiccio, grassoccio
ma agile si muove al ritmo di un brano dance. L’alieno
è Leigh Bowery (1961-1994), in un video di John Maybury. Un talento per
l’esibizione, la trasformazione del corpo in un soggetto performativo, erotico,
dotato di una sessualità non definita, né definitiva. Deformazioni di arti, spalle, moltiplicazione di occhi, orecchie: una sua nota acconciatura consisteva in un dripping di pittura colata sul cranio pelato. Nella fotografia
utilizzata per la locandina di The Legend of Leigh Bowery, il film documentario di Charles Atlas, una gamba è notevolmente più grande dell’altra, come se l'immagine mostrasse non un essere deformato nella struttura anatomica ma
una distorsione prospettica dovuta ad un qualche obiettivo deformante. Contribuisce ad
accentuare l’alterazione la tuta in latex e la testa inguainata in una head mask. Metto in
relazione questa immagine con un’altra: il ritratto di un uomo colto in un
momento di riposo. Il ballerino che ho qui di
fronte, non sembra avere niente in comune con il ritratto di Lucien Freud. Il
piccolo quadro esposto alla Tate l'anno scorso e utilizzato come concept editoriale per la mostra All too Human (con un altro titolo, la mostra è al Chiostro del Bramante). Raffigura la sua testa
calva poggiata alla spalla sinistra sollevata, gli occhi sono chiusi e le guance e la bocca pendono vagamente come se stesse dormendo. Quest’uomo vulnerabile sembra
non avere niente a che fare con l’enorme ballerina che mostra le chiappe al
ritmo di un brano dance.
Bowery è stato trasgressivo, spesso al limite dell’oscenità, ha inventato e disegnato abiti, acconciature, travestimenti, ha immaginato corpi fino a quel momento difficilmente immaginabili. Ha usato il corpo per costruire un'identità attraverso la quale poter esprimere aspetti della sua personalità, ciò ha comportato la modellatura di ogni parte del suo corpo utilizzando una manipolazione masochistica, come se peli, pelle e carne fossero il suo materiale scultoreo e non cosa viva: penso al rimaneggiamento a cui sottoponeva il volto attraverso l’applicazione di protesi grottesche e l’uso eccentrico delle head mask utilizzate come una seconda pelle, una tela da pittore. Annullata l’identità precedente, la non-maschera era pronta per essere ridisegnata con un trucco stravagante, con l’applicazione di bocche, occhi, orecchie posticce oppure essere indossata come un elemento di vestiario qualunque, realizzato con lo stesso tessuto dell’abito, la stessa texture, così da togliere al volto ogni espressione e identità. Le guance erano forate per l'inserimento di grandi spille da balia a cui attaccava finte labbra sorridenti. Un insolito inventore che attraverso gli straordinari costumi creati per il teatro e per se stesso ha giocato con la moda, il feticismo e l'estetica del carnevale. Ha trasformato i suoi cento kg in uno spettacolo androgino. In questo viaggio nelle discoteche e nei club, nella cultura pop e nella creatività ci sono taccuini, bozzetti, un video e la famosa giacca in denim e mollette per capelli.
Sussidiario
Qualche anno fa Boy George ha messo in scena il musical Taboo. La storia ruota attorno ad una
serie di personaggi e al più famoso club londinese, il leggendario Taboo (1985-1987), creazione dello
stesso Bowery che ne era l’animatore. Una sorta di autobiografia nella Londra
di quegli anni (è risaputo, ad dirla tutta, che George raramente ha frequentato
il Taboo. Si sa gli artisti
riscrivono spesso la storia con senno di poi). Nel musical tuttavia George
impersona Bowery, ne cannibalizza l’immagine e ne svaligia l’estro
restituendoci comunque una presenza viva.
Per alcuni giorni ho avuto questo pallino fisso, batteva a zig zag sulle pareti del cranio senza fermarsi in un punto preciso, riguardava libri persi, regalati, dati via, riviste d’arte donate. Cercavo di ricordare che fine avessero fatto alcuni articoli di Pier Vittorio Tondelli (1955-1991) che avevo ritagliato da Rockstar e custodito per decenni in una cartellina. In questa ricerca strana ho scoperto che alcuni libri che pensavo di avere non sono più sugli scafali, di altri non riesco a liberarmi (gialli storici, più che altro). Forse a incasinare la memoria ci si è messo di mezzo anche l’e-book. Ci sono libri seppelliti sotto una lista di file non letti, titoli accumulati uno dietro l’altro, uno sopra l’altro, pronti a conquistare l’alta classifica ma non il podio del desiderio. Uno di questi precipitava sempre in fondo alla lista, ritornava su e poi precipitava di nuovo. Trattandosi di una faccenda digitale, il problema è la lista. Il difetto dell’e-book è che non esistono costole ma solo un elenco che scorre dall’alto al basso, dall’ultimo al primo: niente costole sulla libreria, niente colori familiari, la riconoscibile grafica della casa editrice, niente accoppiamenti per grandezze, niente accumulo sul comodino ma una triste sequenza paratattica da ufficio del catasto. Quel romanzo che speravo di leggere appena dopo l’acquisto inevitabilmente finiva nell’abisso della lista, un anonimo tra gli anonimi, grigio tra i grigi. La scrittrice è Zadie Smith, Della bellezza. Trovato, letto, amato. Zadie Smith scrive romanzi corali, zeppi di personaggi che si muovono sui fili della sua ragnatela narrativa multistrato. Affronta molte delle questioni postcoloniali di integrazione tra famiglie incasinate; le contraddizioni delle comunità afroasiatiche nei quartieri a nordovest di Londra, le problematiche identitarie, il razzismo, le questioni di genere. Tutte le volte mi ha lasciata interdetta nei finali semplicemente realistici, come nella vita. Nessun personaggio è tagliato con l'accetta, non ci sono i buoni e i cattivi, i bianchi e i neri. Nella mia personale classifica delle preferenze Denti bianchi rimane il suo capolavoro, un gioiello di complessità in un mondo che continua a proporci modelli di semplificazione, seguono Della Bellezza e NW. Swing Time è in lettura.
Per alcuni giorni ho avuto questo pallino fisso, batteva a zig zag sulle pareti del cranio senza fermarsi in un punto preciso, riguardava libri persi, regalati, dati via, riviste d’arte donate. Cercavo di ricordare che fine avessero fatto alcuni articoli di Pier Vittorio Tondelli (1955-1991) che avevo ritagliato da Rockstar e custodito per decenni in una cartellina. In questa ricerca strana ho scoperto che alcuni libri che pensavo di avere non sono più sugli scafali, di altri non riesco a liberarmi (gialli storici, più che altro). Forse a incasinare la memoria ci si è messo di mezzo anche l’e-book. Ci sono libri seppelliti sotto una lista di file non letti, titoli accumulati uno dietro l’altro, uno sopra l’altro, pronti a conquistare l’alta classifica ma non il podio del desiderio. Uno di questi precipitava sempre in fondo alla lista, ritornava su e poi precipitava di nuovo. Trattandosi di una faccenda digitale, il problema è la lista. Il difetto dell’e-book è che non esistono costole ma solo un elenco che scorre dall’alto al basso, dall’ultimo al primo: niente costole sulla libreria, niente colori familiari, la riconoscibile grafica della casa editrice, niente accoppiamenti per grandezze, niente accumulo sul comodino ma una triste sequenza paratattica da ufficio del catasto. Quel romanzo che speravo di leggere appena dopo l’acquisto inevitabilmente finiva nell’abisso della lista, un anonimo tra gli anonimi, grigio tra i grigi. La scrittrice è Zadie Smith, Della bellezza. Trovato, letto, amato. Zadie Smith scrive romanzi corali, zeppi di personaggi che si muovono sui fili della sua ragnatela narrativa multistrato. Affronta molte delle questioni postcoloniali di integrazione tra famiglie incasinate; le contraddizioni delle comunità afroasiatiche nei quartieri a nordovest di Londra, le problematiche identitarie, il razzismo, le questioni di genere. Tutte le volte mi ha lasciata interdetta nei finali semplicemente realistici, come nella vita. Nessun personaggio è tagliato con l'accetta, non ci sono i buoni e i cattivi, i bianchi e i neri. Nella mia personale classifica delle preferenze Denti bianchi rimane il suo capolavoro, un gioiello di complessità in un mondo che continua a proporci modelli di semplificazione, seguono Della Bellezza e NW. Swing Time è in lettura.
Tornando all'elenco, sono sicura che la cosa più semplice da fare è mettere ordine: raggruppare per generi, autori, libri letti e da leggere, cose da archivio insomma. Posso dire che la bellezza della libreria in legno è che ammette il disordine. Il colpo d'occhio alla costola blu di un Sellerio, allo struzzo di un Einaudi o all'omino degli Oscar consola. Meravigliosa creatura analogica.
Ultimamente,
i miei spazi abitativi si sono ridotti, i romanzi fanno fatica ad sostare. Ho
scelto di comprare in formato cartaceo solo pochi eletti: libri
illustrati, d’arte, saggi, in alternativa prendo in prestito in biblioteca.
Quando in un libro, nel formato digitale dell’e-book, sono previste anche
immagini, queste appaiono grigine, francobolliche e inutili, piccole icone
nebbiose e, a questo punto, l’esperienza della lettura risulta piuttosto
irritante. Ho letto in questo stato Just Kids di Patty Smith. M Train l’ho
preso direttamente in prestito in biblioteca. Non potevo rinunciare ad una
visone un minimo decente delle sue polaroid. Molte di quelle polaroid sono
pubblicate in Camera Solo (catalogo della mostra). Mi consolo in alcune loro sfocature, angoli bui, luci sbagliate e improvvisamente una foto perfetta. Ho ripercorso alcuni
sentieri di Patty Smith, certi ritorni, la sacralità di alcuni viaggi. M Train
mi ha coinvolto sin dalle prime pagine. Non sempre sono riuscita a sentirmi in
sintonia con certi ondeggiamenti emotivi ma è un libro poetico e commovente,
impossibile separare immagini e testo. A volte scrivo con lo stereo acceso. Mentre scrivo questo post uno squarcio mi fa perdere il filo del discorso… I am the son and heir, of a shyness that is criminally
vulgar… (Sono
figlio ed erede, di una timidezza criminalmente volgare…) Citazione e omaggio a George Eliot, Middlemarch, 1874. E' un suono struggente
spezza pensieri. E' Hatful of Hollow
degli Smith, 1984, il secondo LP. How
soon Is Now è una canzone che lacera le viscere. Ogni frase, ogni suono mi distrae
e mi porta altrove e mi impedisce un minimo di concentrazione. Non riesco a riconnettermi
al discorso. Dovrei provare a mettere a posto il caos o spegnere lo stereo. Si dice
che per dare forma a quel suono Johnny Marr abbia lavorato per ore registrando
i singoli frammenti, anche solo di dieci secondi per volta, per poi ricomporli in
una sola battuta. Era il 1984, non si facevano le canzoni con gli smartphone. Quando
il mantra ipnotico di How soon Is Now attacca,
quel suono mi spacca il cervello in due. Marr l’ha eseguita quest’estate in un
concerto alla Royal Festival Hall. L’esecuzione mi ha sorpreso. Quelle
“vibrazioni malsane e tribali” hanno trasformato la massa di individui un po’
alticci in osservanti religiosi. Quelli
sui palchetti erano i più scalmanati: uomini e donne sovrappeso, di mezza età,
bicchiere di birra in mano, si sporgevano in avanti come a chiedere l’abbraccio
dell’amato. Tutti protesi verso quell’omino magro che a vederlo da lontano pareva
avere ancora vent’anni. Il concerto si è chiuso con l’addio più bello che un
amore possa cantare prima di andare via. “Sì, questa è per voi, tutti voi e
nessun altro… Take me out tonight because I want to see people and I want to see
lights, driving in your car. Oh please don’t drop me home, because it’s not my
home, it’s their home and I’m welcome no more and if a double-decker bus, Crashes
into us…(“Portami fuori stasera,
dove c’è musica e c’è gente che è giovane e vivace, viaggiando nella tua auto. Ti prego,
non scaricarmi a casa, perché non è casa mia, è casa loro ed io non sono più il
benvenuto e, se un autobus a due piani, si schiantasse contro di noi…”) un coro di
smemorati, persi tra le mura di una cameretta fantasma, persi nelle romanticherie
posticce e vere allo stesso tempo, persi nel fantasma di un sentimento… tutti assieme To die by your side, such a heavenly way to die (“…morire al tuo
fianco, sarebbe un modo celestiale di morire…”) in coro… And if a ten ton truck, kills the both of us, to die by your side, the
pleasure and the privilege is mine (“E se un camion di dieci tonnellate, ci
uccidesse entrambi, morire al tuo fianco, sarebbe un piacere e un privilegio
per me”).
Nel trasloco i numeri di
Rockstar sono finiti in discarica, come tante altre cose. Avevo ritagliato e conservato
le pagine di Culture Club per decenni
ma mi accorgo solo ora che anche queste pagine, dopo una seconda cernita, sono finite al macero. Non sempre le scelte che vengono fatte d'impulso sono scelte sensate. Buttare via Culture Club è stata una stupidaggine. Il pallino continua a saltellare. Cerco un articolo letto 33 anni fa. Penso di ricordare quasi ogni parola, come tutte le cose lette da giovani, ma ho bisogno di ritrovarlo. Assieme ad altri materiali Culture Club confluì in Un weekend postmoderno (1990)
lo ritrovo in Pier Vittorio Tondelli, OPERE cronache, saggi e conversazioni a
cura di Fulvio Panzeri, Bompiani. Inizio dalla
pagina 327, titolo originale su Culture Club Trilogia
dell’artista da giovane, qui semplicemente The Smith. Quell’articolo mi fece conoscere la band di Manchester. Ne
ricordavo ogni parola. Tondelli
mi aprì ad altre menti, altri modi di vedere le cose. Lessi Ballo di Famiglia e La lingua perduta delle gru di David Levitt perché ne aveva scritto
Tondelli (anche se non lo convincevano certe situazioni familiari stereotipate), lessi Le mille luci
di New York di Jay MacInerney,(il film con Michael J. Fox mi deluse parecchio). Ogni film, libro, artista, musicista citato da Tondelli andava stanato, My beautiful laundrette di Hanif Kureishi, John Fante e poi arte, musica, teatro
che nel mio piccolo mondo in quel momento non aveva asilo. Ricordo bene
le parole di Il viaggiatore solitario,
un bellissimo pezzo sul disagio di viaggiare da soli e la bellezza del silenzio
e dello spazio per sé. Quell’articolo taccava corde in quel momento per me
sensibili. I miei spostamenti di allora non si potevano certo definire viaggi,
eppure conoscevo quel sentimento di cui parlava Tondelli. Il raccontare
misurato sentimenti smisurati e, spiegare a me perché a trent’anni amasse
viaggiare e a venti no. “Quando ero un ragazzo ero ignorante, leggevo poco,
scrivevo male. Se avessi visto quel paesaggio avrei solamente ricevuto
un’emozione turistica. Oggi invece, che conosco Corot, posso vedere e sentire
quel paesaggio, quella città, quel luogo in un modo diverso. Leggere libri, guardare
opere d’arte, ascoltare musica, andare al cinema, sono tutte attività che
nutrono il nostro sentire.” Come non identificarsi. Tondelli è stato una
bussola, una luce nella notte, ha rappresentato un fratello maggiore, l’indice
verso una luna luminosa, un cielo pieno di possibili mondi da scoprire.
Sussidiario
Culture Club era la sua rubrica e, per quelli della mia generazione, era
soprattutto il nome del gruppo pop di Boy George. Il titolo chiamava infatti in
causa in modo esplicito la band poiché, come sosteneva ironicamente “Ogni
generazione ha la sua Liz Tylor che si merita”. Aveva ragione.
L’articolo sugli Smith finiva così: “Ma ecco, infine il momento del trionfo, Morrissey che si rotola per terra, con i jeans oramai quasi giù, e canta: “Hand in glove, the sun shine aut of our behind. No, it’s not like any other love, this one is different because it’s us…” (Armoniosamente uniti, camminiamo da amanti in controluce: no, questo non è un amore diverso, è diverso perché riguarda noi…”) In questa voce, in questo grido, posso cogliere le speranze del ragazzo che sono stato e dei ragazzi che tutti siamo stati. Morrisey ha buon gioco: “I am human, and I need to be loved.” [1986]
ARC
Collaborò con Rockstar per quattro
anni dal dicembre del 1985 e al novembre del 1989.
L’articolo sugli Smith finiva così: “Ma ecco, infine il momento del trionfo, Morrissey che si rotola per terra, con i jeans oramai quasi giù, e canta: “Hand in glove, the sun shine aut of our behind. No, it’s not like any other love, this one is different because it’s us…” (Armoniosamente uniti, camminiamo da amanti in controluce: no, questo non è un amore diverso, è diverso perché riguarda noi…”) In questa voce, in questo grido, posso cogliere le speranze del ragazzo che sono stato e dei ragazzi che tutti siamo stati. Morrisey ha buon gioco: “I am human, and I need to be loved.” [1986]
ARC
Nessun commento:
Posta un commento