Sussidiario
Lo spostamento del girovago urbano non ha più niente a che fare con la flânerie, con il viaggio conoscitivo per incidente, nel quale quello che si scopre non è stato programmato e non si innesta su una competenza preesistente. "Il profilo del girovago urbano che passeggia
senza meta è superato, siamo entrati nell’era dello stalker, dei viaggi
intrapresi per uno scopo con uno sguardo aguzzo e senza nessun
patrocinio" Iain Sinclair, London Orbiral
A partire da una cornice ipotetica parto da un punto a caso sul bordo, costruisco labirinti sempre più grandi e tortuosi, allargo lo spazio, aggiungo connessioni fra cose e ricordi, oggetti e riflessioni poi rallento e torno al punto di partenza, fatto un girotondo su me stessa, la finisco lì. Nei vagabondaggi ho trovato spesso istruttivo
fissare un itinerario di massima così da avere una rotta e poi
perdermi nel groviglio delle informazioni. Non sempre questo modo di fare dà
realmente dei risultati, a volte troppi avvenimenti e troppi concetti si
affastellano, vado in una direzione e mi sfugge l’essenziale, sono costretta a
tornarci più volte. Il risultato è confusione, scorie sedimentate in decenni di
disordine.
Spesso al disordine contribuisce l’ignoranza dello spazio, della storia, perfino
della cronaca presente. Capita che avuto notizia di una mostra l’abbia
trascurata, abbandonata per qualcosa che al momento sembrava più invitante,
capita che quella mail letta troppo presto, sovrapposta a tanti altri dati
spesso inutili, l’abbia scordata. Capita, imboccata la strada giusta, di
ritrovare la galleria. E’ aperta. La mostra è di Frédéric Bruly Baubré, un
artista della Costa d’Avorio recentemente scomparso, conosciuto in Europa dal
1989 quando il suo lavoro venne esposto a Parigi, al Centre Pompidou, nella
celebre mostra Magiciens de la terre che
in quel momento particolare della storia occidentale e dell’arte segnalava
l’attenzione verso culture non occidentali e in generale verso la marginalità.
Molti artisti che hanno un vissuto coloniale come Bruly Baubré hanno
un’esperienza lavorativa impiegatizia, alcuni dei suoi lavori sono stati
realizzati durante il periodo in cui lavorava come impiegato in uffici
governativi. I feules volages sono
disegni a penna a sfera e pastello, formato cartolina inquadrati da una cornice
di testo, spesso si ispirano al folclore locale o a sue visioni. E’ vero, le storie generano collante sociale, contribuiscono a dare forma alla comunità, almeno in passato è stato così, eppure non sempre riescono ad impedire incidenti, inneschi di odio.
Sussidiario
Alcuni testi dei disegni più noti di Frédéric
Bruly Baubré: Antique art africain: Bruly
et la scarification o La montée
dell’umanité au ciel: un nuage blanc figurant un “enfant”, raffigura una
nuvola a forma di bambino; Una divine
peinture scriptuaire relevée sur un “fruit banane jaunie”, raffigura una
banana con degli strani segni sulla buccia.
Bruly Baubré ha creato anche un sillabario universale in lingua Bété di 448
pittogrammi che rappresentano scene della vita e sono sinonimo di parole a
sillaba singola. Lettere che ha usato per trascrivere la tradizione orale del
suo popolo. Una comunità riunita attorno a racconti e storie.
Tutti a cercare un riparo, qualcosa a cui
appigliarsi persi nelle micro diaspore che ci riguardano, popoli interi e
piccole comunità perse tra le case di mattoni. Basterà un simbolo a attenuare
gli scontri, gli odi razziali?
Sussidiario
Ho visto Brike
Line il film di Sara Gavron tratto dal romanzo di Monica Ali sulla comunità
bengalese, di origine rurale, la più numerosa in questa zona di Londra che dai
tempi degli Ugonotti francesi è il quartiere nel quale permangono da sempre i
nuovi immigrati prima di spostarsi in altri quartieri. Al tempo della sua
realizzazione, il film creò non poche polemiche all’interno dei gruppi più
ortodossi, al punto che la produzione decise di girarlo in altre zone di
Londra. A distanza di qualche anno, oggi quest’area è la visione turistica di
se stessa. Hanno perso tutti.
Ricordarsi di andare a vedere Bangla di Phaim Bhuiyan, ambientato a Torpignattara.
Ricordarsi di andare a vedere Bangla di Phaim Bhuiyan, ambientato a Torpignattara.
La comunità non è mai un rifugio, un
idilliaco conservatore di tradizioni che non implichino scontro e delusioni.
Come ben sapeva anche Maria Lai, le storie e, i luoghi nelle quali si
raccontano, sono la linfa di una comunità, ma anche covi di serpi, luoghi in
cui districare i nodi, rendere innocui i veleni. Il progetto del lavatoio di
Ulassai realizzato con Costantino Nivola, ha consentito un’operazione di
recupero sia del monumento che dell’uso che ne veniva fatto, un luogo di
socialità, prima che entrassero nelle case le lavatrici. La tradizione del contos, della poesia orale, della
letteratura nasce dalla socialità. Spesso le opere hanno origine in una
leggenda, come quella di Legarsi alla
montagna. La comunità si aggrega attorno alle storie. L'arte come risorsa.
Sussidiario
E’ la fine degli anni Settanta. La crisi della
pastorizia, lo spopolamento dei piccoli centri, il miraggio del petrolchimico, l’emigrazione.
L’amministrazione comunale di Ulassai, il suo paese, ha in mente un monumento
ai caduti e per la sua realizzazione pensa a Maria Lai, che rifiuta di
realizzare un monumento di questo tipo, propone in cambio “Legarsi alla
montagna”. L’idea nasce nel 1979 e, ci vorranno ben due anni prima che il
progetto possa prendere forma. Il progetto è molto più complesso di un
monumento ai caduti, è un monumento ai resilienti. L’idea è quella di un’opera
che coinvolga, nei due anni successivi, tutto il paese. Due anni di incontri e
scontri che mettano d’accordo le persone, superino le inimicizie, le fazioni,
che creino quei legami necessari per la comunità. Scegliendo quest’ultima e non
le pietre Maria Lai ha innescato un meccanismo che non si è più fermato. La
leggenda: durante un furioso temporale, una bambina è attratta da un nastro che
vola nel cielo ed esce dalla grotta dove si è rifugiata. Un gesto a prima vista
sconsiderato la salverà da una frana devastante. Un elemento poetico, un sogno,
qualcosa di colorato opposto al degrado, all’inimicizia. Un racconto,
un'artista, una comunità, una montagna e ventisei chilometri di stoffa azzurra.
L’idea di comunità sognata o reale,
aspirazioni e vita concreta, radici, tradizioni o acquisizione di modelli
preconfezionati imposti dall’alto, sincera spiritualità comunitaria, senso del
sacro sedimentato di generazione in generazione o fuochi fatui, non è facile
decifrare i segnali dell’uno o dell’altro. Ci sono i luogo sognati e la realtà
vera. Ci sono luoghi immaginati e luoghi vissuti. La Sardegna che ho vissuto
non è quella del turista medio che immagina una terra di vip in bikini
circondato da greggi di pecore. C’è stata un’epoca, forse ancora è così, in cui
la Sardegna veniva immaginata come un luogo esotico al pari di isole
caraibiche. Per me è stata un terreno di esperienza. Anche la Toscana vive
questa contraddizione. C’è San Gimignano pulita e medievalmente vendibile e c’è
Livorno. C’è una terra da cartolina come la Val d’Orcia e i luoghi concreti,
veri come i capannoni nella aree industriali di Prato, San Donnino, Osmannoro.
Gli artisti come al solito cavalcano le contraddizioni. Un paio d’anni fa, il
pittore Liu Xiaodong, per un progetto di residenza artistica si è ispirato a
questi luoghi, alle contraddizioni del paesaggio sognato e del paesaggio
vissuto. Ha deciso di realizzare alcuni dipinti di paesaggio rappresentanti la
Toscana sognata, la Val d’Orcia e i luoghi della vita reale di Prato dove vive
la comunità cinese più popolosa d’Italia, ormai arrivata alla terza
generazione.
Sussidiario
La serie Chinatown di Liu Xiaodong rappresenta persone e
luoghi incontrati durante il suo soggiorno. Nate dalle esplorazioni e dalle
fotografie fatte dall’artista nel Macrolotto Zero, punto di arrivo della
migrazione cinese a Prato tra gli anni Ottanta e Novanta, ritraggono momenti
banali della vita di queste persone, colte in tutta la loro dignità e
normalità. Si incrociano sulle tele i temi l’appartenenza identitaria, il
conflitto e i destini incrociati delle due città di Prato e Wenzhou, luogo di
provenienza della maggior parte dei cittadini cinesi presenti nella città
toscana, che rivela la particolarità sociale e storica della migrazione cinese
a Prato.
La prima volta che sono stata a Prato
pioveva. Con Roberto ci siamo persi e ritrovati a China Town. Andavamo al
Centro Pecci, per arrivaci con l’auto non è necessario entrare nel centro
storico, per questo conoscevo i margini esterni della città e niente di più. Ci
siamo tornati molte volte da allora, soprattutto dopo la riapertura in
occasione dell’ampliamento, l’ultima volta per vedere Tomorrow Is the Question di Rirkrit Tiravanija.
Ho scoperto la Prato medievale
e ottocentesca qualche anno fa, arrivata in città col treno, in una giornata di
sole di fine estate: il fiume, il castello federiciano, il duomo, i vecchi
opifici.
Sussidiario
Tomorrow Is
the Question di Tiravanija riattiva a distanza di anni il progetto
dell’artista Jùlius Koller. Koller installò nel 1970 in uno spazio espositivo
di Bratislava tavoli da ping-pong e invitò i visitatori a giocare. Tiravanija
ha riempito una delle sale del museo Pecci di Prato di tavoli da Ping-pong su
cui campeggia la scritta “domani è la questione”, invitando il pubblico a
prendere parte alla mostra giocando e incitando quelli che giocano.
La questione del futuro è la questione dell’impegno
comune, mi sembrava interessante parteciparvi.
L’artista
inglese di origine nigeriana Yinka Shonibare lavora sull’identità e per le sue
opere trae ispirazione dal mondo coloniale vittoriano, lo stile del dandy e le
sue mitologie. Le installazioni
che vidi qualche tempo fa a Firenze mi fecero pensare a certi statue
processionali come la Madonna Assunta. Il manichino di una statua processionale
non è molto diverso da una stampella, è il corredo a definirne lo status. Il
manichino è composto sostanzialmente di una testa di legno montata su un torso
di pagliericcio a cui sono attaccati gli arti di legno; possiede un corredo di
abiti e accessori, scarpe, parrucche e gioielli che la definiscono, ne
determinano l’identità. Se l’aspetto devozionale non compromettesse il rispetto
religioso dovuto a questi oggetti, un manichino con differenti abiti e
accessori potrebbe benissimo interpretare differenti santi. Anche le sculture
di Shonibare indossano la loro identità, sono strutture metalliche, niente di più,
a definirle sono gli l’abiti. Per la confezione degli abiti che hanno una
foggia vittoriana molto precisa, utilizza l’african
wax prints, il tessuto cerato olandese con cui sono cuciti gli abiti
tradizionali africani. La storia di questa stoffa è la storia dell’economia coloniale, imposizione di merci e schiavitù. Stoffe in cambio di corpi. Queste stesse stoffe sono oggi sinonimo di tradizione e appartenenza.
Sussidiario
L’african wax prints è un batik realizzato in olanda nel
negli anni sessanta dell’ottocento per il mercato indonesiano, che non lo prese
affatto in considerazione in quanto veniva ritenuta una stoffa di fattura
mediocre. Stranamente diverrà l’emblema dell’eleganza africana. Gli olandesi
che avevano dei porti in africa iniziarono a smerciarlo in quella che veniva
chiamata la costa d’oro, attuale Ghana, da cui si diffuse in molte aree
dell’Africa divenendo una stoffa tradizionale.
Roman holiday
L’estate scorsa abbiamo
intrapreso un altro dei nostri viaggi-escursione, questa volta in auto, da
Perugia direzione Ostia antica. La mia mente traccia linee di collegamento a
cui non avevo mai fatto caso: una mappa di desideri monchi da completare come
un puzzle. Viste le connessioni emotive determinate dalle visioni infantili,
l’antico porto romano si è rivelato quasi una visita a parenti lontani. Dei
tanti edifici che volevamo vedere c’erano i tre mitrei menzionati sulla guida,
due quel giorno erano chiusi, l’unico visibile era interessante, ma per certi
verso non soddisfacente. Poi, casualmente, vagando in rete, abbiamo scoperto
che nel 2017 è stato riaperto al pubblico il Mitreo di Londra: eretto nel III
secolo dopo Cristo da un certo Vulpius Silvanus, veterano dell’esercito romano.
Il desiderio parzialmente realizzato di visitare questo tipo di tempio ci ha
condotto in una Londra inconsueta; il tempio si trova in piena City, circondato
da palazzi di vetro e cemento, nei sotterranei del Bloomberg building, una
società che si occupa di media, tv e comunicazione, proprietà dell’ex sindaco
di New York.
La ricerca di un mitreo nella
City può risultare difficoltoso, soprattutto per chi le aree archeologiche le
ha sempre visitate in piena campagna o semplicemente all’aperto. Lo sguardo fa
fatica a riconoscere la differenza tra una banca, un palazzo adibito a uffici
finanziari e un mitreo. Quel giorno pioveva. Ma va? Chissà come mai.
- Come sarà il suo involucro?
- Un grattacielo in vetro,
immagino.
Cercare qualcosa di cui non
conosci la forma, peraltro sotto la pioggia, è snervante.
- Hai controllato l’indirizzo?
- L’indirizzo è giusto.
Dovrebbe essere qui.
D’un tratto lo sguardo cade
sulla porta a vetri di un edificio che avevamo scambiato per una banca. Una
scritta grigia: London Mitreum, Bloomberg SPACE. Una meraviglia.
Sussidiario
Ritrovato negli anni cinquanta durante gli scavi per la
ricostruzione dell’area est di Londra dopo i bombardamenti della guerra.
Spostato e ricostruito in Queen Victoria Street oggi è tornato nella sua sede
originale. Sappiamo che il tempio fu eretto da Vulpius Silvanus soldato della
II legione Augusta, nel III secolo, da un’iscrizione incisa su un altare,
ritrovata durante gli scavi dell’area a fine ottocento.
Costruito a pianta rettangolare, dieci metri per cinque,
al contrario di molti mitrei, non è stato realizzato nella sua forma ipogeica
bensì in alzato. In un primo tempo gli archeologi pensarono fosse una basilica
paleocristiana: tre navate divise da due file di colonnine, un’area per
l’altare, sedili lungo le pareti. Il ritrovamento di alcuni resti tra i quali
una testa raffigurante mitra ne hanno consentito la corretta attribuzione. Dopo
gli scavi archeologici in occasione della costruzione del nuovo palazzo di
Bloomberg, la struttura è stata ricollocata nel sito originale, musealizzata e
aperta al pubblico.
Ci accoglie uno Stuart clone dei commessi di via Tornabuoni, stesso
abito, bellezza, età. E’ gentile, sorridente ci avvolge di parole setose,
efficaci allo scopo e ci consegna due tablet per la visita. L’ingresso è
gratuito ma su prenotazione. Oggi non c’è molta gente handsome guy ci fa entrare. Fradici e un po’ confusi cerchiamo di
capire come funziona lo spazio. All'ingresso un progetto d'arte contemporanea dell'artista argentino Pablo Bronstein. Nella prima sala, su una teca verticale alta
fino al soffitto, è collocata una selezione di oggetti ritrovati nell’area
durante gli scavi preliminari all’edificazione del Bloomberg building.
L’esplorazione ha consentito la raccolta di nuovi dati ed è stato possibile
riportare l’edificio nel suo sito originale. Dopo il ritrovamento nel 1952 era
stato smontato e collocato altrove, a circa duecento metri. Il motivo? Non so
dire. Sono numerosi gli oggetti in cuoio e legno, di solito difficili da
trovare integri, ma come testimoniano i recuperi nell'area del Vallo di Adriano, la
composizione del terreno di quest’isoletta è particolarmente adatto alla
conservazione di materiali deperibili, che come al solito sono quelli più
appassionanti: scarpe, oggetti in cuoio, porzioni di porte, chiodi, coltelli
col il manico in osso, gioielli e tavolette di cera, le antenate analogiche del
nostro tablet. Il conto alla rovescia di un orologio a cristalli liquidi,
piuttosto voluminoso, collocato su una parete, scandisce il tempo tra un
ingresso e l’altro al vero e proprio monumento, che si trova sette metri sotto
i nostri piedi. Nell’attesa consultiamo le postazioni digitali sistemate in una
stanza dalla luce soffusa. Attraverso un sistema intuitivo, abbastanza
semplice, leggiamo la storia del sito, alcune piante illustrano l’impianto
architettonico e la funzione dei vari elementi, il tutto è sintetico ma
efficace. Le sculture esposte sono poche, tra queste una testa di Mitra. Mentre
leggiamo le schede didattiche teniamo d’occhio il countdown. E’ ora. L’ingresso
al tempio avviene passando per una scala molto ampia, che lungo il muro riporta
una time line: 1941 una bomba distrugge l’edificio che si trovava in questo
sito, 1838 incoronata la regina Vittoria, 1666 il grande incendio di Londra e,
sette metri sotto l’attuale piano stradale, sull’ultimo scalino, 410 dopo
Cristo, data di fine della dominazione romana. Ci troviamo a livello del piano
stradale dell’antica Londinium. Entriamo in una sala dall’illuminazione
soffusa, i resti mostrano chiaramente la pianta dell’edificio e la divisione
degli spazi. Giriamo attorno al perimetro lungo una passerella, sul fondo, su
una lastra di plexiglass è collocato un disegno della famosa rappresentazione
del mitra tauroctono. Mentre osserviamo i vari elementi architettonici rimasti,
dalla penombra sorge in forma olografica l’alzato del tempio, si sentono voci
arrivare dal passato, i “fantasmi” si muovono, ne sentiamo i rumori, parlano
tra loro. L’ologramma e i suoni permettono ai visitatori un’esperienza
sensoriale e allo stesso tempo conoscitiva. Il viaggio a Londinium prosegue a
pochi metri da qui, sotto la Guildhall Art Gallery. Sotto l’edificio, danneggiato
anche questo dai bombardamenti del 1941, sono stati ritrovati i resti di un
anfiteatro del II secolo d.C. Anche qui i giochi di luci ricreano le scalinate,
i posti a sedere nonché le sagome degli spettatori e dei gladiatori.
Dell’edificio restano solo alcuni frammenti di mura dell’ingresso orientale; è
possibile concepirne le dimensioni dall’esterno, sulla piazza sono segnati i
punti che delimitavano l’edificio, così da dare un’idea delle reali
proporzioni. Poteva contenere 6000 posti. In un’area di dimensioni
modeste, circondata da edifici moderni, per poche ore fingiamo di essere a
Londinium.
Bizzarro.
Tornati in quell’angolo di Liguria che abbraccia la Toscana, dopo qualche giorno decidiamo di visitare Luni, l’antica città romana. Profumo di macchia, salmastro e i resti di un anfiteatro. In primavera avevamo visto la fortezza di Sarzanello, e ci eravamo resi conto che non avevamo mai visto Luni. Una scelta totalmente sganciata da ciò che avevamo visto a Ostia e poi a Londra, non pensammo affatto ad un qualche legame, eppure, l’anfiteatro di Luni ha completato l’opera. Un luogo ha permesso l’emersione dell’idea dell’altro, ogni frammento ha illuminato qualcosa che sembrava ancora in ombra. Sullo sfondo il disegno di un mare affollato di polpi, cernie, calamari, sardine, conchiglie realizzato con piccole tessere musive bianche e nere sul pavimento di un edificio scomparso: Turris.
Tornati in quell’angolo di Liguria che abbraccia la Toscana, dopo qualche giorno decidiamo di visitare Luni, l’antica città romana. Profumo di macchia, salmastro e i resti di un anfiteatro. In primavera avevamo visto la fortezza di Sarzanello, e ci eravamo resi conto che non avevamo mai visto Luni. Una scelta totalmente sganciata da ciò che avevamo visto a Ostia e poi a Londra, non pensammo affatto ad un qualche legame, eppure, l’anfiteatro di Luni ha completato l’opera. Un luogo ha permesso l’emersione dell’idea dell’altro, ogni frammento ha illuminato qualcosa che sembrava ancora in ombra. Sullo sfondo il disegno di un mare affollato di polpi, cernie, calamari, sardine, conchiglie realizzato con piccole tessere musive bianche e nere sul pavimento di un edificio scomparso: Turris.
Bibendum
Lo so, tutti cercano la maniera per saltare la fila, eppure ci sono
contesti e contesti, certe file vanno percorse e vissute; mi piacciono
particolarmente quelle di composizione ultra internazionale dove c’è la ragazza
giapponese con trench Burberry color cachi, calzine bianche, sandali e borsetta
Vuitton o quella, sempre giapponese, stilosissima con gonna di seta
plissettata, t-shirt bianca e sneakers ultra lucide, brillanti; più avanti
trovi sempre una coppia cinese ottantenni con cappellino antipioggia e
impermeabile di plastica. Adorabili! Poi ci sono i nordici: russi, scandinavi,
tedeschi che a qualsiasi temperatura vanno in giro in canottiera e sandali; sono
inquietanti almeno quanto quelli che in valigia mettono un po’ di questo e un
po’ di quello, perché forse farà caldo oppure pioverà. Nelle città a forte
affluenza turistica, soprattutto in Italia, incontri indifferentemente chi sembra
andare in spiaggia e altri pronti per scalare le alpi. Personalmente prediligo chi
abbina elementi di abbigliamento di varie stagioni, lunghezze e materiali a
caso. Io mi identifico molto con questa categoria, perché ho difficoltà a fare
la valigia. Da molti anni ho un metodo quasi scientifico, la mia appare come
una divisa, ma raramente rischio l’effetto calzoncini e stivali da pioggia e,
quando accade è voluto, così per autoironia. Mi vesto a strati. Sembro ancora
più cicciona. Se appaio in qualche foto, ed è raro perché le scatto io, sembro
il Bibendum della Michelin. C’è una
foto, che mi ha scattato Roberto, mi piace molto, ho le gambe sottili e il
busto cubico, outfit zen londinese: metti la giacca, togli la giacca, metti la
giacca, togli la giacca. Orripilante! In realtà rappresenta benissimo il tipo
di contesto psicologico che vivo in queste occasioni, sempre inadeguata
all’idea che vorrei dare di me. Se sono presente, l’immagine è riflessa sui
vetri dei dipinti, sulle teche delle opere. Un dipinto protetto dai vetri
riflette l’ambiente circostante, riflette me. Tutte foto sbagliate. Mi diverte
costruire immagini sfuocate, incerte dove appaio un fantasma nell’arte, perché
in fondo è così che mi sento. Tuttavia, Bibendum esiste e vive a Chelsea alla
Michelin House, un edificio proto-déco degli anni dieci, in ferro cemento,
vetrate colorate e ceramica. E’ stato il garage dei noti pneumatici, la
celebrazione dell’automobile, della velocità, realizzato con il materiale più
antico della storia dell’homo faber: l’argilla. Oggi è un ristorante, eppure sembra
la stazione dei pompieri versione lusso del film Ghostbuster.
Proprio a Chelsea ha avuto una
fabbrica di ceramiche William De Morgan ceramista e scrittore, collaboratore di
William Morris, preraffaellita, figlio del matematico Augustus. Ispiratosi alla
ceramica medioevale araba e mediterranea, applicò la simmetria speculare alle
decorazione di piastrelle e piatti vittoriani realizzando fiori, pesci, pavoni
e draghi usando una tavolozza di origine persiana. Non è paragonabile a
ceramisti di alta levatura comunque interessante. Alla mostra ho comprato
quattro spillette tratte dai suoi piatti ceramici arabeggianti alla modica
cifra di 2 pound. Souvenir vittoriani di pura plastica, made in Cina. Gli
inglesi pensano di essere ancora un impero e inciampano sui loro stessi sogni
di grandezza. C’è confusione.
All’attuale disordine si è
ispirato Grayson Perry, artista seducente e ironico, che dei materiali
tradizionali, dell’artigianato ha fatto il suo terreno di lavoro e ha scelto la
ceramica per rappresentare lo scontro sempre più grottesco e ripiegato su se stesso
tra Brexiteers e Remainers. Due vasi di forma classica sfruttano il bagaglio
iconografico e la dimensione domestica per condurci in un'altra dimensione,
perturbante e incerta. Sfruttando i social media, ha invitato il pubblico
britannico a contribuire a idee, immagini e frasi per coprire la superficie dei
due enormi vasi: uno per i Brexiteer e uno per i Remainers.
Sussidiario
Per l’apertura
della mostra The Most Popular Art
Exhibition Ever! Alla Serpentine, Gallery
Grayson Perry ha creato Long Pig, un
enorme salvadanaio dalla tradizionale forma a maialino, in questo caso a due
teste, una sorridente e l’altra arrabbiata e undici fessure riconducibili a
categorie sociali considerate perdenti o vincenti. Mi sono sentita parte in
causa.
Trovare un posto dove stare non sempre è
facile. Appartengo ad una categoria? A quale categoria vorrei appartenere? A
Quale realmente appartengo? Galleggiamo in uno stato di sospensione per cui non
si è mai appagati, uniamo a questo una perenne condizione di incertezza
acquisita e ciò che otteniamo è un disastro. L’ironia può essere uno strumento di
affermazione. Perry ad esempio si presenta in pubblico impersonando il suo
alter-ego Claire, una figura femminile vestita come Alice del film Disney.
Lo stato di sospensione
determinato dalla Brexit è un Drama-comedy, un’esperienza surreale, persino le
persone che hanno partecipato con i testi alla scrittura dei vasi hanno
probabilmente già cambiato idea.
Questa faccenda mi fa
ricordare il film Jumanji. Dei
ragazzini trovano un gioco da tavolo che si rivela svincolato dalle scelte dei
giocatori, uno svago da cui potrebbero non uscire mai più. Non hanno idea di
ciò che potrebbe accadere veramente una volta avviato, tant’è, curiosi come
scoiattoli, lanciano i dadi, per provare. Il primo tira e si ritrova
quarant’anni nella giungla, inseguito da qualsiasi tipo di predatore. Spera
nell’altro giocatore, che rilanci, lo liberi, ma l’altro si è scordato, non sa
più del gioco, sono passati anni. Mentre la sua vita continua in una corsa
senza fine, potrebbe accadere che il suo compagno non tiri mai più i dadi, che
il gioco si fermi lì. Brexit or Remain?
Chimere soap-plaster-casting
Sussidiario
Molti artisti utilizzano pratiche tradizionali o ritenute specifiche dell’artigianato penso l’uso della tessitura negli arazzi o il patchwork di Grayson Perry, Kiki Smith. Gli arazzi e le trapunte sono passate di moda, il carro della ceramica sta guadagnando velocità e negli ultimi anni è regolare trovare opere realizzate con questo materiale.
Mi ricordo che spesso lo scarico della lavatrice saltava dalla sua posizione e capitava di trovare il bagno allagato, di solito ad avvisarci era la nostra cagnetta Samantha, che alla vista dell’acqua sul confine del corridoio iniziava ad abbaiare, salvando così il resto della casa da inondazioni bibliche. Una volta l’acqua arrivò al contenitore di cartone del sapone in polvere, l’incidente l’aveva addensato in una poltiglia maleodorante, perché asciugasse o in attesa di buttarlo via, mia madre lo lasciò in terrazza. Certi esperimenti che facevo da bambina riguardavano la scultura. Una volta sperimentai delle sculture di sapone. La terrazza era il mio laboratorio da alchimista, il luogo dove trasformavo gli scarti in gioco, la fantasia in avventure. Avevo tutto ciò che serve per sognare. Quella poltiglia aveva qualcosa di attraente, forse l’odore, forse la consistenza spugnosa. Ne misi una piccola quantità in una delle pentoline di alluminio smaltato con cui giocavo. I giochi per bimbi un tempo erano soltanto la versione in miniatura degli oggetti per adulti, si usava ancora molto il metallo. A quella poltiglia addizionavo, con una grattugia per noce moscata, una piccola quantità di gesso colorato. I colori saturi del gesso, la spugnosità del detersivo davano a quella pappa una consistenza e una bellezza da scultura pop. Aveva la caratteristica di asciugare molto in fretta, così potevo aggiungere elementi e decorazioni colorate. Dalle formine da spiaggia venivano fuori torte e pasticcini e tutta una serie di strane sculture fatte di elementi indigesti, forme decadenti come in una sorta di sand-casting saponoso. Ricordo ancora l’odore di sapone bagnato, l’odore del bucato asciugato male, di scarpe da tennis. Confection di Francesca Di Mattio mi fa pensare a quelle chimere, non ho ancora capito se mi piace o è semplicemente un déjà-vu. Entrata nella sala, è una delle opere che ho notato immediatamente. Ricordo di essermi diretta verso Confection senza indugio, ma non perché la ritenessi bella o meritevole di interesse, volevo capire cos’era, come quando si viene attratti da qualcosa di repellente, vorresti staccare lo sguardo ma la curiosità ti fa aprire gli occhi. Sono sculture artificiose, sanno di putrefazione, come le mie soap-casting. La scultura che ho davanti ha tutta l’aria di una torta abbondantemente decorata rovinata al suolo, anzi, quel che rimane dopo che per uno strano sentimento di pietà qualcuno ha provato a rimetterla insieme. Pezzi di vasi, manici a forma di proboscide o code di scimmia, pastorelle di Sèvres e insetti molesti di Maissen, a fare da collante una pappa simile per colore e consistenza alla zuccherina glassa per dolci. Persino alcuni decori simili a riccioli di meringhe e roselline di zucchero fondente sembrerebbero fatti con la saccapoche da pasticcere. I frammenti non sembrano originali, le proporzioni non corrispondono a quelle dei vasi che mi pare di riconoscere, eppure a guardarli restituiscono bene la sincerità delle porcellane a cui si riferiscono: manifattura Maissen, frammenti di ceramica di Iznik, porcellane di Sèvres, gres Jasperwere tutti assemblati in una sorta di grande ammasso in equilibrio precario. Nel tentativo di capire il senso di questa poltiglia potrei dire che l’artista, Francesca Di Mattio, newyorkese, persegua l’obiettivo di verificare i limiti, fino alle estreme conseguenze, del mezzo che si trova a lavorare, fino a produrre effetti piuttosto contrastanti al confine tra il desiderio goloso di dolci e il disgusto, il gradimento di certe decorazioni classiche e la repulsione. Una mosca nel piatto.
Sacri monti
La Città di Gerusalemme di San Vivaldo è un Sacro Monte, nel comune di
Montaione provincia di Firenze. Immerse in un bosco, una serie di cappelle e
casette ricostruiscono la topografia dei luoghi sacri di Gerusalemme legati
alla vita di Cristo: la valle di Giosafat, il giardino degli ulivi; una
compensazione per chi non poteva recarsi in pellegrinaggio in Terra Santa e
immaginava di percorrere le vie di una città desiderata. Ogni costruzione,
simile ad una casetta nel bosco, ad una cappella o una piccola chiesa di
campagna riserva al suo interno una sacra rappresentazione in terracotta
raffigurante una scena del nuovo testamento. Dopo le piogge torrenziali di
questi giorni ci tornerò, stavolta accompagnata dallo sguardo lucido di Edith
Warthon che durante un viaggio, non paga delle notizie apprese, aprì una
questione di attribuzioni.
Sussidiario
Nel 1893 Edith Warthon, la famosa scrittrice newyorkese,
visitò il santuario di San Vivaldo per vedere alcune grandi statue di
terracotta attribuite a Giovanni Gonnelli, scultore del XVII secolo, di cui
aveva sentito parlare. Ricordava di aver visto al Bargello opere simili “alcuni
dettagli di capelli e panneggio” “la ricorrenza dello stesso tipo di faccia”
notevoli esempi di arte del Quattrocento, in questo caso in ritardo.
L’intuizione fu che non c’era ritardo ma le opere potevano essere benissimo di
scultori quattrocenteschi. Chiese ai fratelli Alinari di scattare alcune foto e
le spedì al professor Enrico Ridolfi, allora direttore dei Musei Reali di
Firenze. Viste le foto il professore si convinse dell’errore di attribuzione.
Studi recenti attribuiscono una somiglianza stilistica all’opera di Giovanni
della Robbia a tre su cinque dei gruppi fotografati. La Warthon Pubblicò il suo
resoconto in un articolo del 1895 e in seguitò riportò l’episodio in Scenari italiani, pubblicato nel 1905.
Vasi, cornucopie, ghirlande, madonne, crocefissioni, santi e angeli
invetriati; sobborghi operai e case borghesi, palazzi vittoriani rivestiti di
stucco bianco, insulae romane,
pavimenti di conventi, chiostri maiolicati, stazioni della metropolitana.
Fango, sempre fango, origine del mondo.
Alcuni nuovi
scenari hanno necessità di tempo per armonizzarsi con il paesaggio o l’ambiente
urbano. E’ pure vero che non tutto risulta a prima vista piacevole o
accogliente. Nei pressi della stazione di Edgware Road, cercando di evitare la
pioggia a scrosci, alla ricerca di una nota galleria d’arte, faccio notare a
Roberto - che nel frattempo punta la sua App-bussola alla ricerca
dell’indirizzo- qualcosa di colorato, un edificio dissonante. Ricorda edifici
visti in Italia dove fino agli anni settanta era possibile trovare palazzi
rivestiti in mattonelle. Un ospedale? Ci avviciniamo, ci giriamo intorno,
scatto le mie foto sbilenche. Troviamo una targa. Ci informa che si tratta di
un intervento di arte pubblica. Nel 2012 l’artista belga Jacquelin Poncelet ha
realizzato un opera non apprezzata moltissimo dagli abitanti del quartiere,
soprattutto non nell’immediato, un muro di rivestimento realizzato con 700
pannelli di piastrelle in smalto vetroso, che rimandano a decorazioni
tradizionali o semplicemente evocative del patchwork delle comunità locali.
Questa zona di Londra è abitata soprattutto da nord africani e arabi:
marocchini, libanesi, egiziani. Alle otto del mattino i tavolini fuori dai bar
accolgono i mattinieri del narghilè. Basterebbe una visita al V&A per capirne
le implicazioni antropologiche, estetiche e sociali. Tutto torna, l’enorme
edificio colorato ospita gli uffici della metropolitana di Londra. L’evocazione
del materiale ceramico in un’opera di rivestimento parietale riporta alla
memoria vecchie tradizioni architettoniche locali poiché molte vecchie stazioni
della metro conservano ancora il loro rivestimento in ceramica, alcune sono
anche molto belle. Nella storica stazione di Edgware Road, le finestrelle della
biglietteria, non più in uso, sostituite da pratiche biglietterie elettroniche,
sono in ceramica verde.
ARC
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