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Nell'attesa di avere qualcosa da dire, 2013, particolare |
A.R.C. - Vorrei che mi
illustrassi come si sviluppa il processo creativo nel tuo lavoro, soprattutto
negli ultimi progetti “Nell’attesa di avere qualcosa da dire” 2013 e Torno
subito 2014.
J.S. –
Credo di non aver modificato troppo il mio modus operandi, riguardo la
creazione del lavoro. Indubbiamente negli ultimi anni spero che il processo
creativo sia maturato, consolidato negli aspetti più positivi.
A
partire da “Nell’attesa di avere qualcosa da dire” del 2013 ho pensato di
interrompere, in parte, tutto il lavoro precedente dei grandi disegni, dei
grandi “Monumenti provvisori”. Ho deciso di concentrarmi un attimo su altri
aspetti del mio lavoro, nell’attesa di trovare un’altra via, un’altra
espressione.
Ho
pensato di tornare indietro e rielaborare vecchi progetti, alla ricerca di
qualcosa che potessi ancora sviluppare, salvare, ripercorrere, pur non volendo
trovare un nuovo tema da indagare.
A.R.C. –Come sei tornata
indietro nel riguardare il tuo lavoro?
J.S. – Ho
mantenuto alcune costanti, ad esempio l’utilizzo di alcuni materiali, a volte
deperibili. Sono materiali tipici dell’arte che spesso hanno una funzione
legata al lavoro preparatorio dell’opera, pensiamo alla matita. Il disegno è
spesso bozzetto, studio, la formazione preliminare dell’azione dell’oggetto
artistico.
Attenti al leone, 2008, Musée Fesch, Ajaccio |
A.R.C. – In questi ultimi
lavori, che materiale utilizzi principalmente?
J.S. – Ho
riutilizzato la plastilina che avevo usato nei primissimi anni di attività,
perché mi piaceva l’idea di un materiale, intanto povero, molto elementare, che
nell’ambito dell’arte viene comunque usato per produrre dei bozzetti. Un po’
come tornare all’essenziale.
Negli
ultimi tempi, mi divertiva l’idea che l’agire artistico, quello considerato
tale, è molto sentito da tutte quelle signore che producono cake design.
Guardare
a queste torte pazzesche in pasta di zucchero, ritornando a percorrere però i
miei lavori.
J.S. I
miei soggetti preferiti sono la natura e gli animali. Questo materiale mi
permette di mantenere una certa figuratività che avevo ritrovato e mai percorso,
a partire dagli autoritratti di “Specchio delle mie brame” (2000-2003) e dai
grandi disegni “Monumenti provvisori” (2007-2012). Prima c’era un’astrazione
organica, c’era una forma realistica ma primitiva: la cellula o il blob, una
forma molto elementare.
A.R.C. – E’ comunque un
ritorno alla scultura?
J.S. – Sì,
un ritorno alla scultura.
A.R.C. –Per alcuni tuoi
disegni ricordo divertenti equivoci, non voluti. “Morte a Venezia” (2011)
realizzato per la Biennale di Venezia, pennarello su carta, è stato
interpretato come una stampa.
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Torno subito, 2014, L.E.M, Sassari |
J.S. Dopo
anni di ricognizione attorno al disegno in tutte le sue variabili tecniche,
dalla matita su tela, graffite o carboncino su muro, pennarello su carta, su
tela ecc..
A.R.C. Come è cambiato il
processo creativo?
J.S. – Il
processo di creazione è rimasto invariato, mi piaceva riiniziare a lavorare
pensando di non avere niente da dire. Essere libera di produrre a prescindere dal
senso. E’ un problema dell’arte di tutti i tempi: è vero che se io riconosco la
forma non necessariamente capisco il senso.
Mi
piaceva ritornare alla libertà del fare, della forma, senza essere legata ad un
tema specifico o un impegno specifico, che so una mostra.
A.R.C. – Il tuo interesse è
rivolto verso gli animali, la natura. Quali tipi di animali scegli e perché?
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Sacco, 2014 |
J.S. –-
spesso i miei lavori avevano un titolo di serie, poi ogni lavoro aveva un
sottotitolo o una frase che identificava il pezzo in particolare, ho sempre
lavorato partendo da un imput da cui si sviluppavano una serie di situazioni. Questo
ultimo lavoro, che non ha un titolo specifico, in questo caso l’idea era quella
di utilizzare quello che meglio so utilizzare e concentrarmi sulla vita, sulla
vita in generale e in particolare la mia. Ho voluto utilizzare gli animali, la
natura come metafora della vita, della mia e quella di tutti.
Gli
animali possono avere un ruolo determinato e preciso, dato dalla sedimentazione
culturale, dai luoghi comuni. Ho pensato di raccontare tutta una serie di stati
d’animo, un po’ come ho fatto con “Specchio delle mie brame”, di raccontare la
vita di questi ultimi anni che è veramente feroce, anche per gli artisti.
A.R.C. –Le sculture sono tutte
inserite in teche o all’interno di campane di vetro, in una sorta di protezione
dall’esterno. E’ un tipo di presentazione che mi fatto venire in mente il
romanzo di Andrej Astvacaturov “Il museo dei fetidi” (racconta, attraverso
aneddoti grotteschi, l’infanzia dell’autore vissuta in un quartiere di
Leningrado degli anni Settanta).
Le teche isolano dall’esterno
o hanno la stessa funzione della cornice per un quadro?
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Nell'attesa di avere qualcosa da dire 2013, Sassari, Le fondamenta degli incurabili |
J.S. –Entrambe
le cose. In parte, l’idea nasce da una cosa che mi colpì anni fa in un negozio,
le biosfere in miniatura, delle bolle al cui interno vivevano i gamberetti. Mi
aveva affascinato incredibilmente questo mondo a parte, questo microcosmo, che
per loro è il mondo. L’universo come il “Museo dei fetidi” di cui mi parlavi.
Alcuni
lavori hanno bisogno di una protezione particolare, ma è anche vero che il
chiudere, l’incorniciare è sistemizzare un sistema, appunto. Per cui la campana
richiama tutta la produzione di presepi, le statue votive e, la teca richiama
l’idea del museo, dell’animale impagliato, ma anche vivo. C’è l’idea di
produrre un qualcosa che è protetto dal mondo esterno che permetta a questa
cosa estremamente fragile di sopravvivere il più possibile.
Mi
piaceva l’idea di costruire un mondo in cui l’altro guarda.
Nella
sua installazione originaria, realizzata site specific per “Le Fondamenta degli
incurabili” nel 2013 a Sassari, “Nell’ attesa di avere qualcosa da dire” aveva
le stelle, un cielo stellato, senza costellazioni specifiche. Mi piace l’dea di
dare una visione, non solo legata allo spazio in cui la mostra è stata
installata, ma anche una dimensione universale.
ARC
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