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Palazzo Lucarini Contemporary |
La linea di Palazzo Lucarini Contemporary è orientata sul versante sperimentale e di ricerca, una attività
per certi versi affine a quella dei centri di produzione artistica, delle
kunsthaus: nessuna collezione permanente, nessuna sede prestigiosa ma una
attività istituzionale di carattere informale strutturata in differenti
progetti. Le mostre principali, in gran parte personali di artisti più maturi, si affiancano, dal 2004, al progetto per la formazione didattica dei ragazzi “Officine
dell’Umbria”, articolato in residenze e pedagogia condivisa e, dal 2013, alla
“Galleria Cinica” orientata alla ricerca degli artisti under 35.
Nonostante l’edificio sia impegnato
in un lavoro di ristrutturazione che da due anni produce parecchio disagio, i
progetti espositivi di Palazzo Lucarini Contemporary si sono avvicendati con
regolarità ospitando artisti, esposizioni e progetti didattici. Nell’attesa del
ripristino completo degli spazi, che permetteranno una sistemazione adeguata al
programma permanente di residenze e al progetto di museo come luogo
polifunzionale di formazione, mi faccio raccontare da Maurizio Coccia di questo
spazio espositivo e del fare arte contemporanea oggi.
Mentre parliamo (in Skype) sento in
sottofondo i rumori di preparazione dell’ultimo allestimento. Alla
pubblicazione di questa intervista le mostre "Contemplazioni" del Collettivo Illimine e "Foreste" di Alessio Santoni, per la Galleria Cinica, saranno già state inaugurata.
A R C - Da
due anni Palazzo Lucarini è un cantiere aperto. Il palazzo è impegnato in un
lavoro di restauro che ha creato notevole disagio, ma questo non ha impedito la
prosecuzione del lavoro espositivo che lo rende comunque un posto particolare. Raccontami
del progetto Palazzo Lucarini Contemporary, come è nato?
M C – Io sono qui dal 2003 e ho assistito
al passaggio -anzi l’ho facilitato – dal vecchio Flash Art Museum alla
situazione attuale. Negli anni abbiamo affinato la nostra ricerca più sul
versante sperimentale e di ricerca, perciò la nostra è una attività che per
certi versi è affine a quella delle kunsthaus, dei centri di produzione
artistica. Non abbiamo una collezione, non abbiamo una sede prestigiosa.
Abbiamo una attività istituzionale di carattere informale.
Al
termine di questi lavori non cambierà molto, ma dovremmo strutturare meglio gli
aspetti legati soprattutto all’ospitalità. Avremo un appartamento apposta per
questo, e vorrei dare vita a un programma permanente di residenze, perché la
parte principale delle esposizioni dovrebbe riguardare quello, cioè un artista
che si confronta con Palazzo Lucarini, come spazio e come collettore di
memoria, di suggestioni, anche storiche. Non un contenitore vuoto ma un
incubatore.
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Adalberto Abbate e Mario Consiglio,
Manifesto, 2015 |
A R C – Come funzioneranno gli spazi?
M C – Se tu hai presente com’è la hall, di
fianco c’è uno spazio - che probabilmente quando sei venuta tu l’ultima volta
era chiuso - dove c’è una cappella gentilizia che noi trasformeremo, come dire,
in un centro studi. Forse come definizione è un po’ troppo paludata e pomposa,
ma penso a un luogo polifunzionale, dove faremo incontri, dibattiti,
presentazioni di libri, workshop, soprattutto relativi ad una formazione per
adulti, perché abbiamo già un progetto per la formazione dei ragazzini:
lavoriamo con le scuole dal 2004, il progetto si chiama “Officine dell’Umbria”
ed è il più longevo dei progetti didattici, azzarderei dire, a livello
nazionale.
A R C – Effettivamente sono più di
dieci anni. Di solito dopo qualche anno questi progetti iniziano a zoppicare,
diventa difficile mantenere alto lo standard e il rapporto con il territorio.
Senza parlare dei finanziamenti…
M C – Parte della mia formazione è di
pedagogista. Noi abbiamo cominciato con la didattica prima di tanti altri luoghi
di richiamo, penso a Palazzo delle Esposizioni, o il Museo di Rivoli. Parte di
questo progetto lo abbiamo messo in piedi mutuandolo da altre cose di questo
tipo che si facevano in Abruzzo, presso il Museolaboratorio EX Manifattura Tabacchi
di Città Sant’Angelo (Pe). Noi lo abbiamo adattato al nostro territorio; poi,
nel frattempo, loro hanno finito e noi stiamo proseguendo, nonostante la diminuzione
dei finanziamenti, che adesso sono ridotti al 20% di quello che avevamo fino al
2010.
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Adalberto Abbate e Mario Consiglio,
Manifesto, 2015 |
A R C – “Officine dell’Umbria”
prevede la presenza collaborativa degli artisti nel progetto di didattica, i
laboratori didattici non sono affidati ad operatori di didattica museale o
sbaglio?
M C – Ci sono due step: uno quello di
sensibilizzazione - noi lo chiamiamo alfabetizzazione - per i bambini, che
viene effettuato da operatori, che abbiamo formato noi, poi c’è la settimana
full immersion con gli artisti qui a Palazzo Lucarini. Infatti, anche Andrea
d’Ascanio, che hai intervistato di recente, ha partecipato assieme al gruppo
Aliment(e)azione a una di queste esperienze e, quindi, se vogliamo dirla in
termini tecnici, il paradigma pedagogico che proponiamo prevede la condivisione
del progetto e non l’imposizione dall’alto di uno stile da replicare, di una
poetica da mandare a memoria, ma lo sviluppo concertato di un progetto
specifico. Quindi i ragazzini sono sollecitati a fornire un punto di vista
costruttivo e non soltanto a essere i terminali operativi di un progetto nato altrove.
Noi crediamo in una teoria della pedagogia condivisa e la mettiamo in pratica.
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Galleria Cinica-
Alisia Cruciani, Reture(s) gli
"spazi possibili" 2015 |
A R C – “Officine dell’Umbria” si
relaziona con l’esterno. In quale altro modo si attiva questa relazione? Ho
visto che l’articolazione degli spazi di Palazzo Lucarini è duplice, ci sono
due diversi progetti espositivi da una parte “Galleria Cinica” dall’altra le
mostre nelle sale principali. Che tipologie di progetti sono?
M C – Nel 2013 nell’occasione del
ventesimo anniversario della nascita di Palazzo Lucarini ho pensato bene di
passare il testimone, per quel che riguarda la ricerca degli artisti più
giovani. Sono convinto che seguire artisti giovani significa anche avere un’età
idonea. In pratica, io non ho più la sensibilità, né la cultura, né
l’immaginario adatto per relazionarmi con artisti della fascia sotto i 35 anni.
A R C – Mi piace questa tua
considerazione. E’ una cosa su cui mi è capitato di riflettere, non è
possibile avere il controllo e soprattutto la conoscenza di tutto, riuscire a
seguire tutte le nuove dinamiche mantenendo la freschezza.
M C – E come se tu mettessi Félix Fénéon a
lavorare con l’Arte Povera!
Sono
cose che bisogna riconoscere. Non ho manie di protagonismo, non sono un
tuttologo.
Credo
nel lavoro che faccio, che è costituito anche da processi di delega.
Ho
trovato una curatrice più giovane a cui ho affidato la gestione del progetto. È
chiaro che una supervisone da parte mia c’è sempre. In alcuni casi posso fare
delle segnalazioni. Però sostanzialmente il discorso è semplice: gli artisti
giovani sono seguiti da curatori giovani. E questo è “Galleria Cinica”. Poi le
main exhibitions seguono un filone che è quello, quando è possibile, di
rapporto con lo spazio di Palazzo Lucarini e, possibilmente, con mostre
personali. Dico “possibilmente” perché di questa tipologia ne abbiamo fatte
diverse, e per l’anno prossimo ne stiamo preparando altre, alcune molto
potenti, molto forti per l’indirizzo che si dà a questo tipo di legame osmotico
con lo spazio. Nel 2016 ci sarà una serie di iniziative molto intensa, non ti
posso ancora anticipare niente, ma dovrebbe diventare più incisiva e confortevole,
grazie anche alla nuova possibilità di ospitare idoneamente gli artisti -
perché fino ad ora li ospito a casa mia- e di estendere nel tempo questa cosa.
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Andrea Casciu e Andrea d'Ascanio,
“Go Through, Get Through”, 2014 |
A R C –Palazzo Lucarini con i suoi progetti
è aperto al territorio, ma il territorio come entra in Palazzo Lucarini, come
si relaziona? C’è un interesse, un consenso? Com’è questo rapporto?
M C – La risposta è piuttosto articolata, ma
in sintesi diciamo questo: mi posso permettere il lusso di non cercare il
consenso. Ti spiego. Non è per snobismo che lo dico. Lo dico perché il
programma che mi sono posto con Palazzo Lucarini è quello di presentare cose
che non trovi da altre parti e questo entra in rotta di collisione con i gusti
di un pubblico popolare. Ci sono molte occasioni di vedere queste mostre - che
io non faccio-, in giro per l’Umbria, in giro per l’Italia, in giro per
l’Europa. Io voglio fare altro, perché mi sembra utile trovare
un’intercapedine, un interstizio dove altri non arrivano, cose che possono
anche urtare la media di un gusto istituzionalizzato. Non mi interessano i
grandi numeri perché non li possiamo fare; le infrastrutture, ma anche le
strutture, non me lo permettono. Preferisco il dibattito al riconoscimento passivo
del pubblico.
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Angelo Colangelo, Tagliente, 2014 |
A R C – Più che il consenso, forse ho
sbagliato termine, qual è l’interesse del territorio nei vostri confronti. Come
viene recepito, come viene vissuto, anche come risposte emotive. Che tipo di
scambio c’è?
M C – Ti posso rispondere che siamo nella
media italiana, cioè un passo oltre la tolleranza e un passo prima
dell’insofferenza. Cioè l’arte contemporanea in Italia non interessa, chi dice
il contrario mente sapendo di mentire. E’ un discorso di nicchia, è
un’estetica, uso questo termine improprio, che dà fastidio, perché chiaramente
i paesaggisti che trovi nei vicoli medievali non fanno arte contemporanea, le
mostre Blockbuster non fanno arte
contemporanea. L’arte contemporanea offre conoscenza, e la conoscenza non
sempre è piacevole, è un tipo di consapevolezza che può dare fastidio, che
qualcuno può anche scegliere - e per questo lo rispetto - di evitare. Tu hai
parlato di risposte emotive, io parlo di rispetto: siamo rispettati. Abbiamo un
grado di reputazione internazionale, ma credo che quelli che ci abitano al
piano di sopra non sappiano in minima misura quello che accade qui - perché di sopra
è abitato-. Ma credo che se tu faccia questa domanda a qualcuno che abita nei
dintorni di Rivoli probabilmente otterresti la stessa risposta.
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Galleria Cinica-
Alisia Cruciani, Reture(s) gli
"spazi possibili", 2015 |
A R C – Certo. Non mi aspettavo una
risposta diversa, mi interessa comprendere il reale rapporto con il territorio.
M C – Poi possiamo entrare nello specifico
del rapporto con gli altri operatori artistici della regione e lì ti posso dire
che con una tolleranza del 10% è puro e semplice opportunismo. Non è vittimismo,
è così. Se tu fai la mostra all’artista, l’artista viene. Se lo fai alla sua
fidanzata, forse viene. Ma solo se sono in buoni rapporti, altrimenti non ci
viene. Sto generalizzando, estremizzando la cosa, è ovvio. Ci sono persone che
ci seguono, ma il dato macroscopico è questo.
La
mia figura sociale, la deontologia che mi muove, la vedo molto lucidamente. E’
inutile nascondermi dietro la foglia di fico di un ecumenismo, che non esiste
nell’arte contemporanea. Non posso e non voglio piacere a tutti. Preferisco
essere coerente ed essere riconoscibile. Chi vuole mi può seguire, ma dare
anche indicazioni sulla nostra rotta. Perché siamo aperti. Noi abbiamo offerto
una serie innumerevole di collaborazione con artisti, luoghi espositivi del
territorio, e non c’è stato di ritorno praticamente nulla. Ma continuiamo a
investire anche sull’Umbria, pur senza cercare il localismo a tutti i costi,
solo perché la nostra sede è qui..
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Galleria Cinica-
(come) Achille, il modo peggiore sul
terreno peggiore, 2014 |
A R C – Ti dicevo, riesco a visitare
Trevi durante le vacanze, sono passata a ferragosto e come capita, sono passata
a Foligno. Mi ha stupito la chiusura nella settimana di ferragosto del CIAC. Due
realtà molto diverse da Palazzo Lucarini, come Palazzo Collicola Spoleto e il CIAC
hanno non solo i vostri stessi orari di apertura (tre giorni la settimana!), pur
avendo una struttura con progettualità e obiettivi differenti, una collezione
permanente, mostre temporanee di richiamo… ma non si preoccupano del pubblico.
M C - …possiamo aggiungere l’aggravante
dei costi per i contribuenti. Per noi, qui, le uniche spese sostenute dall’ente
pubblico sono i mancati redditi del potenziale affitto che potrebbe riscuotere
se mettesse sul mercato i locali, e le utenze: luce, acqua e riscaldamento.
A R C – Chiudo con il discorso
territorio. Ti faccio un’ultima domanda.
Di recente ho letto un intervento di
Barilli sull’ipotesi di dare forma ad <<un recinto virtuale dirispetto>> verso il pubblico, ipotesi ragionata a seguito l’episodio
svoltosi al Festival di Santarcangelo in cui Tino Seghal ha indotto un
performer a orinare in pubblico. Cosa ne pensi di regolare la libertà degli
interventi artistici negli spazi pubblici?
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Galleria Cinica-
Alessio Santoni, Foreste, 2015 |
M C – Il discorso è molto complicato. Io sto facendo da
diversi anni studi su questi temi. Il libro (Una rivoluzione non richiesta.
Modelli di arte inclusiva dal Nord Sardegna, Aracne, 2014) che ho pubblicato su
Aliment(e)azione e Az.Namusnart aveva come pretesto quello di parlare dei
gruppi, ma l’interesse era relativo all’arte pubblica - o negli spazi pubblici
- e implicitamente relativo al rapporto tra arte, artista e pubblico. Bisogna
intenderci, io sono radicalmente contrario all’idealizzazione dell’arte, al
crocianesimo che mette l’esperienza e l’oggetto artistico in una condizione di
sacralità intangibile dal fango della quotidianità. Sono altresì scettico sulla
vulgata che vuole le pratiche di arte partecipata e condivisa in grado di
modificare virtuosamente le dinamiche sociali. Non ci credo. Io credo che
l’arte abbia degli strumenti per una visione critica sulla realtà. L’intervento
diretto spetta ad altre istituzioni che non sono quelle artistiche, sono il
legislatore, la magistratura… Per tanto, spettatori e pubblico, alla luce di
quello che è successo nell’arte contemporanea, non sono ontologicamente
diversi. Il pubblico, un visitatore, può diventare in un determinato momento partecipe.
Come diceva più o meno Goodman: <<devi chiederti non cos’è arte, ma
quando quella cosa è arte>>, e lo stesso vale per la partecipazione del
pubblico. Il pubblico può interagire, può scegliere di non interagire, può
essere coinvolto in maniera coatta come faceva la scuola di Rosario negli anni
sessanta in Argentina, e in Centro America, con quelle azioni al limite del
sadismo sociale, come si diceva all’epoca. Può succedere. Credo che la cosa
peggiore, e questo è tipico di Barilli, sia quell’atteggiamento apodittico, di
dare una cosa come dogmatica, universale. Non c’è una legge, c’è fluidità, c’è
ogni volta il mettere in discussione gli assunti precedenti. Questo è il modo
in cui io affronto l’arte, l’arte contemporanea. Penso che ogni rigidità si
ritorca contro chi parla di arte. Sono contrario a quello che ha detto Barilli,
penso sia sempre un errore dare le cose per assodate.
Noi
abbiamo recuperato alla fine del XIX secolo il Manierismo. E Botticelli. Senza
parlare degli impressionisti, che ora valgono milioni e alle prime mostre
generavano scandalo. Ci vorrebbe un po’ più di buon senso e sospendere il
giudizio.
ARC
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