mercoledì 13 maggio 2015

Conversazione con Sabrina Muzi/ Artista - Assegnazioni simboliche

Prima parte


Sabrina Muzi vive e lavora a Bologna.
Opera impiegando dispositivi differenti: video, fotografia, performance, installazione, disegno che in relazione tra loro, spesso, contribuiscono al compimento di progetti site specific.
Questa conversazione è stata l’occasione per parlare degli ultimi progetti dai quali emerge un nuovo interesse verso elementi e oggetti, soprattutto spezie o sostanze di cui ci cibiamo, investiti di significato apotropaico. 
Ai consueti temi del corpo soggetto alle connessioni con l’ambiente sociale e naturale, al cibo, nei lavori recenti, si sovrappongono le differenti assegnazioni simboliche che l’uomo ha attribuito, nel corso della storia, a forme e sostanze naturali.




Amuleti, spezie, 2013
A.R.C. Raccontami di "Pratica naturale" la mostra che hai proposto nello spazio Sensus lo scorso ottobre a Firenze, con la quale casualmente è nata una liaison con il blog, nella Giornata del Contemporaneo.
S.M. La mostra è stata il risultato di vari interventi: un’installazione a terra fatta di spezie era il punto di partenza, un lavoro che esisteva già, ma molto recente, e che mi è stato chiesto di riproporre, poi alla fine tutto il progetto della personale è un po’ gravitato intorno a questa installazione.
Gli elementi naturali, legati al cibo ricorrono spesso nel mio lavoro, come il corpo, che comunque è legato all’alimentazione. Il titolo di questo lavoro è Amuleti, sono forme "disegnate" sul pavimento e realizzate con spezie in polvere. Il richiamo è alle tradizioni scaramantiche popolari, sono simboli portafortuna.
Thypos, terra,  2013, dettaglio
Le spezie contengono da tempo questo valore, probabilmente questo deriva anche dal fatto  di avere proprietà medicamentose, aspetto molto sfruttato nell’ antica farmacopea.
Nonostante la fragilità del materiale, il lavoro visivamente risulta compatto, ingannando un po’ la percezione, tanto che le persone sono tentate a toccarlo. Poiché ho testurizzato la superficie rendendola un po’ mossa, si ha l’illusione che sia stoffa, come fosse un tappeto. 
Lo spazio a disposizione era molto grande, e per l’occasione ho realizzato dei lavori nuovi. Al centro di una stanza ho posizionato una "colonna" tonda composta da fili che scendono giù dal soffitto fino a terra, realizzati infilando semi di cardamono, fagioli dell’occhio e peperoncini, poi in fondo in misura minore c’erano anche altre sostanze, cannella, noce moscata, anice stellato, ecc. Pur avendo un aspetto così leggero, il lavoro ha una sua presenza, diventa un elemento architettonico. Il titolo è Pomander.

Pomander, fagioli, semi di cardamomo, filo, 2014
A.R.C. Molto profumato. Un’opera plurisensoriale.
S.M. Sì, infatti i pomander erano delle sfere riempite di spezie, che nel Seicento e Settecento portavano indosso sia uomini che donne, avevano la funzione di profumare, ma venivano usati anche come portafortuna. Ho voluto unire entrambi i significati. La colonna di fili che pendono ricorda uno scacciaguai: suoni, profumi, elementi naturali, così come la Veste che è in mostra proprio ora nello spazio ABC a Bologna per “Hestia. La dimora, cinque artiste e una divinità”, a cura di Maura Pozzati, che, ha comunque anche altri riferimenti: è legato alle tuniche sciamaniche. In differenti culture gli sciamani usano indossare tutta una serie di oggetti penzolanti, che un po’ per il rumore, un po’ per i colori, servono da una parte a scacciare gli spiriti malevoli, dall’altra ad ancorarsi al terreno per non volare via con loro.

A.R.C. Il tuo lavoro ha sempre a che fare con il corpo, il cibo e la natura. Come nasce invece questo tuo interesse per la scaramanzia?
Hortus, riso, installazione, 2013
S.M. Quello che mi interessa è soprattutto la funzione simbolica, ma anche i materiali.
Il riferimento al simbolo arriva nel mio lavoro più di recente, partendo da quella che è la ricerca sul corpo, sul cibo, sulla natura che man mano si è evoluta e ha preso questa direzione. Nella storia gli esseri umani hanno sempre fatto convergere in un prodotto, in un elemento o in una sostanza, un simbolo di qualcosa, che è un valore assegnato. C’è la serie Charms composta da piccoli oggetti realizzati con materiali naturali, cibo, legumi, fiori, che ricordano questo tipo di manufatti.

Hortus, riso, installazione, 2013 dettaglio
Il simbolo non mi interessa soltanto nella sua accezione apotropaica, ma anche per il suo valore segnico/grafico. Nel 2012 ho realizzato un intervento nello spazio Novella Guerra, a Imola, dove ho creato delle forme-simbolo, come per il lavoro delle spezie, utilizzando però la terra. E’ stata un’evoluzione grafica di forme che mi sono divertita a disegnare, e partendo da forme già esistenti le ho modificate. Il riferimento era quello dell’archetipo della madre terra, del femminile e delle fasi lunari. Sono partita dalla mezza luna piena, che man mano diventavano delle corna, poi una colonna turrita, un vaso, una falce, e cosi via fino a tornare ad essere un cerchio. Anche questi tappeti di terra apparivano con un loro spessore, rivelando un’ aspetto oggettuale. Sempre con lo spesso procedimento tecnico, nel 2013 ho realizzato Hortus, un lavoro più complesso, tutto fatto con il riso. Un quadrato 2mx2m realizzato come se fosse un merletto. E’ una a sorta di giardino di riso. Ho ripreso il disegno di varie piante e fiori utilizzati nell’architettura del passato sia per bassorilievi che nelle pavimentazioni: foglie di acanto, palma, rosette, vite. Ispirandomi a quelle che erano le decorazioni musive e decorative medievali. Chiudeva la forma l’elemento ornamentale del nodo, tipico delle tradizioni nordiche e celtiche.

Vanitas7 fotografie, 40x60 cm + cornice, 2013
A.R.C. Mi sembra che aggiungendo a elementi come il riso, i legumi o sostanze come le spezie, che sono cibo e elementi dal significato apotropaico, ma anche moneta di scambio, il tuo lavoro stia acquistando, rispetto a quelle che sono le connessioni con l’ambiente sociale e naturale, un livello di lettura sempre più complesso.
S.M. Riflettere sul rapporto con l’ambiente sociale e naturale è anche un pensare alla storia del genere umano, tutti i saperi e le conoscenze possono essere messi in ballo, antropologia, filosofia, biologia, botanica. Più si va avanti e più la ricerca si stratifica ma quello che si deve cercare di fare è sempre arrivare a una sintesi, la semplicità capace di rendere una complessità. Anche i linguaggi che utilizzo sono aumentati. Oramai mi muovo su più media, e passo con facilità dall’uno all’altro.

Daimonprogetto di 15 fotografie, 2014
A.R.C. Parliamo del lavoro che esponi qui a San Benedetto del Tronto, per il Marche Centro d’Arte.
S.M. Si tratta di una selezione di un progetto di quindici fotografie, qui ne ho selezionate alcune. In vari miei lavori sono presente io stessa, con il mio corpo, questo è uno di quelli, dove però ho scelto di rappresentare il volto.
Si chiama Daimon, e l’idea parte dalle maschere che troviamo in rilievo o come sculture nei voltoni di antichi palazzi, o anche nei portoni, quei mascheroni un po’ mostruosi che avevano in passato la funzione di spaventare per proteggere. Ho cercato di rendere evidente questo aspetto utilizzando anche qui materiali che provengono dalla natura, elementi marini, carrube, funghi.

Charms, 30x30 cm ca. ognuno
- fiori di karkadè e cuscino in pelle
- stecche di cannella, fagioli rossi, noci moscate e cuscino in stoffa
- perle di tapioca e cuscino stoffa, 2013
A.R.C. Come procedi, come li hai realizzati?
S.M. La composizione è stata fatta potremo dire in maniera analogica, cioè senza far ricorso al fotomontaggio digitale, ma lavorando su due scatti fotografici, quello del volto di cui poi è stata ri-fotografata la foto con i vari elementi sovrapposti.

A.R.C. Si percepiscono le ombre degli elementi sovrapposti, c’è una certa profondità, è vero.
S.M. Sì, volevo si percepisse una profondità. Il Daimon nell’antica filosofia greca indica lo spirito, l’essenza, quello che veramente si è e che dovrebbe venir fuori, che in genere viene fuori dal volto, quando ci relazioniamo con gli altri.


A.R.C. Quale è stato il tuo primo lavoro maturo, quello che consideri l’opera di origine di una serie di altri sviluppi?
Veste, materiali vari, 2015
S.M. Un lavoro realizzato con dei frammenti piccolissimi di carta posti su dei grandi pannelli che andavano a formare una texture multiforme. Si ricollegava a riflessioni sulla storia dell’arte. Una aspetto che poi è tornata con Hortus e in altri progetti recenti. Un altro lavoro a cui sono molto affezionata è un’installazione realizzato con sei fogli di carta velina, su cui ho tracciato dei segni materici con la polvere di grafite. Si intitolava Studi, erano degli studi appunto, pur essendo un lavoro fatto tanti anni fa sento che lo potrei fare anche adesso. Lo esposi qui a San Benedetto del Tronto, quando ancora ci vivevo, nel lontano 1991. Poi nel ’92 l’Accademia di Macerata, con la cattedra di anatomia organizzò una mostra in Cina, nel Museo di Storia Cinese, in Piazza Tienanmen. 
Io avevo già finito l’Accademia da un paio d’anni. C’erano anche Carla Mattii, Francesca Gentili, Franco Marconi e altri. Lo esposi lì, piacque moltissimo, forse perché evocava connessioni con la calligrafia cinese, è un lavoro che contiene un’estemporaneità e una sua freschezza. 
Questa fu la prima mostra di artisti occidentali in Cina, era il periodo di Deng Xiaoping. In Cina ci sono tornata poi nel 2010 per una residenza a Kunming, nello Yunnan, dove ho avuto occasione di fare una residenza di tre mesi, che si è conclusa con una mostra allo Yunnan University Art Museum della città.

A.R.C. Come è stata quest’esperienza?
S.M. E’ sempre interessante trovarsi in un paese straniero, specie se si è dall’altra parte del globo, in una cultura completamente diversa dalla tua. Avevo già fatto un’esperienza nel 2007 in Corea, a Seul. Poi l’ultima nel 2013 a Taipei, in Taiwan.

Nessun commento:

Posta un commento