Prima parte
Sabrina Muzi vive e
lavora a Bologna.
Opera impiegando
dispositivi differenti: video, fotografia, performance, installazione, disegno che in relazione tra loro, spesso, contribuiscono al compimento di progetti site
specific.
Questa conversazione
è stata l’occasione per parlare degli ultimi progetti dai quali emerge un
nuovo interesse verso elementi e oggetti, soprattutto spezie o sostanze di cui
ci cibiamo, investiti di significato apotropaico.
Ai
consueti temi del corpo soggetto alle connessioni con l’ambiente sociale e
naturale, al cibo, nei lavori recenti, si sovrappongono le differenti assegnazioni simboliche che
l’uomo ha attribuito, nel corso della storia, a forme e sostanze naturali.
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Amuleti, spezie, 2013 |
A.R.C. Raccontami di
"Pratica naturale" la mostra che hai proposto nello spazio Sensus lo
scorso ottobre a Firenze, con la quale casualmente è nata una liaison con il
blog, nella Giornata del Contemporaneo.
S.M. La mostra è stata il
risultato di vari interventi: un’installazione a terra fatta di spezie era il
punto di partenza, un lavoro che esisteva già, ma molto recente, e che mi è
stato chiesto di riproporre, poi alla fine tutto il progetto della personale è
un po’ gravitato intorno a questa installazione.
Gli elementi naturali, legati al cibo ricorrono spesso nel mio lavoro,
come il corpo, che comunque è legato all’alimentazione. Il titolo di questo
lavoro è Amuleti, sono forme "disegnate" sul pavimento e realizzate con spezie in polvere. Il richiamo è alle
tradizioni scaramantiche popolari, sono simboli portafortuna.
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Thypos, terra, 2013, dettaglio |
Le spezie contengono da tempo questo valore, probabilmente questo
deriva anche dal fatto di avere proprietà
medicamentose, aspetto molto sfruttato nell’ antica farmacopea.
Nonostante la fragilità del materiale, il lavoro visivamente risulta
compatto, ingannando un po’ la percezione, tanto che le persone sono tentate a
toccarlo. Poiché ho testurizzato la superficie rendendola un po’ mossa, si ha
l’illusione che sia stoffa, come fosse un tappeto.
Lo spazio a disposizione era molto grande, e per l’occasione ho
realizzato dei lavori nuovi. Al centro di una stanza ho posizionato una "colonna" tonda composta da fili che scendono giù dal soffitto fino a terra, realizzati
infilando semi di cardamono, fagioli dell’occhio e peperoncini, poi in fondo in
misura minore c’erano anche altre sostanze, cannella, noce moscata, anice
stellato, ecc. Pur avendo un aspetto così leggero, il lavoro ha una sua
presenza, diventa un elemento architettonico. Il titolo è Pomander.
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Pomander, fagioli, semi di cardamomo, filo, 2014 |
A.R.C. Molto
profumato. Un’opera plurisensoriale.
S.M. Sì, infatti i pomander erano delle sfere riempite di spezie, che nel
Seicento e Settecento portavano indosso sia uomini che donne, avevano la
funzione di profumare, ma venivano usati anche come portafortuna. Ho voluto
unire entrambi i significati. La colonna di fili che pendono ricorda uno
scacciaguai: suoni, profumi, elementi naturali, così come la Veste che è in mostra proprio ora nello
spazio ABC a Bologna per “Hestia. La dimora, cinque artiste e una divinità”, a
cura di Maura Pozzati, che, ha comunque anche altri riferimenti: è legato alle
tuniche sciamaniche. In differenti culture gli sciamani usano indossare tutta
una serie di oggetti penzolanti, che un po’ per il rumore, un po’ per i colori,
servono da una parte a scacciare gli spiriti malevoli, dall’altra ad ancorarsi
al terreno per non volare via con loro.
A.R.C. Il tuo lavoro
ha sempre a che fare con il corpo, il cibo e la natura. Come nasce invece
questo tuo interesse per la scaramanzia?
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Hortus, riso, installazione, 2013 |
S.M. Quello che mi
interessa è soprattutto la funzione simbolica, ma anche i materiali.
Il riferimento al simbolo arriva nel mio lavoro più di recente, partendo
da quella che è la ricerca sul corpo, sul cibo, sulla natura che man mano si è
evoluta e ha preso questa direzione. Nella storia gli esseri umani hanno sempre
fatto convergere in un prodotto, in un elemento o in una sostanza, un simbolo
di qualcosa, che è un valore assegnato. C’è la serie Charms composta da piccoli oggetti realizzati con materiali
naturali, cibo, legumi, fiori, che ricordano questo tipo di manufatti.
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Hortus, riso, installazione, 2013 dettaglio |
Il simbolo non mi interessa soltanto nella sua accezione apotropaica,
ma anche per il suo valore segnico/grafico. Nel 2012 ho realizzato un
intervento nello spazio Novella Guerra, a Imola, dove ho creato delle
forme-simbolo, come per il lavoro delle spezie, utilizzando però la terra. E’
stata un’evoluzione grafica di forme che mi sono divertita a disegnare, e partendo
da forme già esistenti le ho modificate. Il riferimento era quello
dell’archetipo della madre terra, del femminile e delle fasi lunari. Sono
partita dalla mezza luna piena, che man mano diventavano delle corna, poi una
colonna turrita, un vaso, una falce, e cosi via fino a tornare ad essere un
cerchio. Anche questi tappeti di terra apparivano con un loro spessore,
rivelando un’ aspetto oggettuale. Sempre con lo spesso procedimento tecnico, nel
2013 ho realizzato Hortus, un lavoro
più complesso, tutto fatto con il riso. Un quadrato 2mx2m realizzato come se
fosse un merletto. E’ una a sorta di giardino di riso. Ho ripreso il disegno di
varie piante e fiori utilizzati nell’architettura del passato sia per
bassorilievi che nelle pavimentazioni: foglie di acanto, palma, rosette, vite. Ispirandomi
a quelle che erano le decorazioni musive e decorative medievali. Chiudeva la
forma l’elemento ornamentale del nodo, tipico delle tradizioni nordiche e
celtiche.
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Vanitas, 7 fotografie, 40x60 cm + cornice, 2013 |
A.R.C. Mi sembra che
aggiungendo a elementi come il riso, i legumi o sostanze come le spezie, che
sono cibo e elementi dal significato apotropaico, ma anche moneta di scambio,
il tuo lavoro stia acquistando, rispetto a quelle che sono le connessioni con
l’ambiente sociale e naturale, un livello di lettura sempre più complesso.
S.M. Riflettere sul
rapporto con l’ambiente sociale e naturale è anche un pensare alla storia del
genere umano, tutti i saperi e le conoscenze possono essere messi in ballo,
antropologia, filosofia, biologia, botanica. Più si va avanti e più la ricerca
si stratifica ma quello che si deve cercare di fare è sempre arrivare a una
sintesi, la semplicità capace di rendere una complessità. Anche i linguaggi che
utilizzo sono aumentati. Oramai mi muovo su più media, e passo con facilità
dall’uno all’altro.
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Daimon, progetto di 15 fotografie, 2014 |
A.R.C. Parliamo del
lavoro che esponi qui a San Benedetto del Tronto, per il Marche Centro d’Arte.
S.M. Si tratta di una
selezione di un progetto di quindici fotografie, qui ne ho selezionate alcune.
In vari miei lavori sono presente io stessa, con il mio corpo, questo è uno di
quelli, dove però ho scelto di rappresentare il volto.
Si chiama Daimon, e l’idea
parte dalle maschere che troviamo in rilievo o come sculture nei voltoni di
antichi palazzi, o anche nei portoni, quei mascheroni un po’ mostruosi che avevano
in passato la funzione di spaventare per proteggere. Ho cercato di rendere
evidente questo aspetto utilizzando anche qui materiali che provengono dalla
natura, elementi marini, carrube, funghi.
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Charms, 30x30 cm ca. ognuno - fiori di karkadè e cuscino in pelle - stecche di cannella, fagioli rossi, noci moscate e cuscino in stoffa - perle di tapioca e cuscino stoffa, 2013 |
A.R.C. Come procedi,
come li hai realizzati?
S.M. La composizione è stata fatta potremo dire in
maniera analogica, cioè senza far ricorso al fotomontaggio digitale, ma
lavorando su due scatti fotografici, quello del volto di cui poi è stata ri-fotografata
la foto con i vari elementi sovrapposti.
A.R.C. Si
percepiscono le ombre degli elementi sovrapposti, c’è una certa profondità, è
vero.
S.M. Sì, volevo si
percepisse una profondità. Il Daimon nell’antica
filosofia greca indica lo spirito, l’essenza, quello che veramente si è e che
dovrebbe venir fuori, che in genere viene fuori dal volto, quando ci
relazioniamo con gli altri.
A.R.C. Quale è stato il tuo primo lavoro maturo, quello che consideri l’opera
di origine di una serie di altri sviluppi?
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Veste, materiali vari, 2015 |
S.M. Un lavoro realizzato
con dei frammenti piccolissimi di carta posti su dei grandi pannelli che andavano
a formare una texture multiforme. Si ricollegava a riflessioni sulla storia
dell’arte. Una aspetto che poi è tornata con Hortus e in altri progetti recenti. Un altro lavoro a cui sono
molto affezionata è un’installazione realizzato con sei fogli di carta velina,
su cui ho tracciato dei segni materici con la polvere di grafite. Si intitolava
Studi, erano degli studi appunto, pur
essendo un lavoro fatto tanti anni fa sento che lo potrei fare anche adesso. Lo
esposi qui a San Benedetto del Tronto, quando ancora ci vivevo, nel lontano 1991.
Poi nel ’92 l’Accademia di Macerata, con la cattedra di anatomia organizzò una
mostra in Cina, nel Museo di Storia Cinese, in Piazza Tienanmen.
Io avevo già
finito l’Accademia da un paio d’anni. C’erano anche Carla Mattii, Francesca
Gentili, Franco Marconi e altri. Lo esposi lì, piacque moltissimo, forse perché
evocava connessioni con la calligrafia cinese, è un lavoro che contiene
un’estemporaneità e una sua freschezza.
Questa fu la prima mostra di artisti
occidentali in Cina, era il periodo di Deng Xiaoping. In Cina ci sono tornata
poi nel 2010 per una residenza a Kunming, nello Yunnan, dove ho avuto occasione
di fare una residenza di tre mesi, che si è conclusa con una mostra allo Yunnan
University Art Museum della città.
A.R.C. Come è stata quest’esperienza?
S.M. E’ sempre
interessante trovarsi in un paese straniero, specie se si è dall’altra parte
del globo, in una cultura completamente diversa dalla tua. Avevo già fatto
un’esperienza nel 2007 in Corea, a Seul. Poi l’ultima nel 2013 a Taipei, in
Taiwan.