<<Mah!… Napoli, com’è?>>
E come faccio a spiegarti. Non ho fotografato neppure
il caldo cocente di mezzogiorno in certe vie assolate che scendono verso il
porto e la frescura dei vicoli laterali, il vento che sale dal porto e
s’incanala lungo le strade in salita fino al Museo Archeologico, e poi su, su fino
a Capodimonte. Non ho fotografato il Museo e la Reggia. Non ho fotografato il
senso di casa e pulito, prodotto dall’alternanza tra il profumo del bucato steso e le fragranze sintetiche di pino, candeggina, aiax dell’acqua sporca accuratamente spazzata via sui marciapiedi davanti ai portoni delle case, dei negozi, che sale su per le narici man mano che avanzi in Via
dei Tribunali; i taxi
e i motorini che gincanano sulle stradine dei Quartieri. Santa Chiara, San
Domenico, le catacombe e il Cristo velato. Non ho fotografato i turisti in fila
per una pizza fritta, per un babà o una sfogliatella, il Duomo e neppure la
Cappella di San Gennaro linda, profumata e lucida.
Alcune chiese barocche, soprattutto in provincia, mi
hanno assuefatta al grigio della polvere, delle ragnatele su stucchi e statue; ai
dipinti anneriti dal fumo, alle suppellettili di mediocre fattura
aggiunte di recente. I fiori di plastica, le candele elettriche. La cappella di
san Gennaro è un’altra cosa. Foto modeste non sarebbero in grado di rendere tangibile
lo stupore di quel momento. Non lo stupore che si prova difronte alla bellezza
di un oggetto ammirato, la cui visione conferma l'opinione corrente ma lo stupore che suscita il risultato della cura a cui è sottoposta. Cura e devozione pari o superiore a quella che si rivolge a una persona amata: pulita, nutrita e
abbigliata. La cappella di San Gennaro è viva.
Non ho fotografato il mercato a valle di quella
scalinata che parallela alla Funicolare di Montesanto viene giù come lava da Castel Sant’Elmo.
Ad ogni scalino verso il basso pensavo alle migliaia di piedi napoletani che l’hanno
fatta, ogni giorno, in salita. Funiculì funiculà la capisci quando dopo
quaranta minuti di scalini arrivi al mercato di Pignasecca. E sei in discesa. Non ho fotografato
la pescheria in cui è stato cotto il mio pesce fritto, le tripperie
incassate in pochi metri quadri, la pizzeria con schermo esterno che trasmette
in diretta l’immagine di una padella d’olio sfrigolante. No, non le ho fotografate. Non ho
fotografato la salita a Capodimonte. Arresi al caldo abbiamo preso l’autobus. Ma
non ho fotografato neppure le fermate e i momenti lenti in curva. Non ho
fotografato la passeggiata in Via Toledo. Tutti sul lato ombreggiato, sudati e
in cerca di emozioni. Sull'altro lato nessuno. Una linea netta di luce e ombra marca il
percorso. E poi, in cerca di refrigerio d’aria condizionata, magari trovare
l’occasione del millennio, negli ultimi giorni di saldi. Non si può fotografare.
Comunque l’offerta del millennio non l’ho trovata. Non ho fotografato i senza
tetto appena svegli la mattina presto sui prati dei giardinetti di Porta
Capuana, il variegato popoli di ogni dove bivaccare tra la stazione e la Piazza
Garibaldi. E, strano ma vero, i banchetti del gioco delle tre carte (o tre tappini di plastica, la versione moderna) uno dietro l'altro. Non ho fotografato il cuoco indiano che per alcune sere, subito
fuori la stazione della metropolitana Garibaldi, ci ha sfamato con il suo internazional
riso kebab. I clienti indiani, somali, eritrei e così via. Non ho fotografato il
parco della Villa Comunale di Chiaia, riposo e refrigerio dal sole del tardo
pomeriggio, lungo via Caracciolo, sempre di fronte a noi. Spesso i luoghi comuni
sono verità. Solo una canzone può rendere la bellezza di certe esperienze.
Con lo smartphone e la piccola macchinetta ho prodotto un inganno della memoria da turista, e non al primo sguardo ma al secondo o terzo passaggio, quando non era più <<a prima vista>>, a volte fuori fuoco, con poca luce e in equilibrio sbilenco. Qualcuna è rimasta fuori, qualcuna si avvicina alla mediocrità. Alcune sono qui. Però ho visto la retrospettiva di Mimmo Jodice.
ARC
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