sabato 29 giugno 2019

PERDUTI NEL MONDO



Sussidiario

Lo spostamento del girovago urbano non ha più niente a che fare con la flânerie, con il viaggio conoscitivo per incidente, nel quale quello che si scopre non è stato programmato e non si innesta su una competenza preesistente. "Il profilo del girovago urbano che passeggia senza meta è superato, siamo entrati nell’era dello stalker, dei viaggi intrapresi per uno scopo con uno sguardo aguzzo e senza nessun patrocinio" Iain Sinclair, London Orbiral
 
A partire da una cornice ipotetica parto da un punto a caso sul bordo, costruisco labirinti sempre più grandi e tortuosi, allargo lo spazio, aggiungo connessioni fra cose e ricordi, oggetti e riflessioni poi rallento e torno al punto di partenza, fatto un girotondo su me stessa, la finisco lì. Nei vagabondaggi ho trovato spesso istruttivo fissare un itinerario di massima così da avere una rotta e poi perdermi nel groviglio delle informazioni. Non sempre questo modo di fare dà realmente dei risultati, a volte troppi avvenimenti e troppi concetti si affastellano, vado in una direzione e mi sfugge l’essenziale, sono costretta a tornarci più volte. Il risultato è confusione, scorie sedimentate in decenni di disordine. Spesso al disordine contribuisce l’ignoranza dello spazio, della storia, perfino della cronaca presente. Capita che avuto notizia di una mostra l’abbia trascurata, abbandonata per qualcosa che al momento sembrava più invitante, capita che quella mail letta troppo presto, sovrapposta a tanti altri dati spesso inutili, l’abbia scordata. Capita, imboccata la strada giusta, di ritrovare la galleria. E’ aperta. La mostra è di Frédéric Bruly Baubré, un artista della Costa d’Avorio recentemente scomparso, conosciuto in Europa dal 1989 quando il suo lavoro venne esposto a Parigi, al Centre Pompidou, nella celebre mostra Magiciens de la terre che in quel momento particolare della storia occidentale e dell’arte segnalava l’attenzione verso culture non occidentali e in generale verso la marginalità. Molti artisti che hanno un vissuto coloniale come Bruly Baubré hanno un’esperienza lavorativa impiegatizia, alcuni dei suoi lavori sono stati realizzati durante il periodo in cui lavorava come impiegato in uffici governativi. I feules volages sono disegni a penna a sfera e pastello, formato cartolina inquadrati da una cornice di testo, spesso si ispirano al folclore locale o a sue visioni. E’ vero, le storie generano collante sociale, contribuiscono a dare forma alla comunità, almeno in passato è stato così, eppure non sempre riescono ad impedire incidenti, inneschi di odio.

Sussidiario

Alcuni testi dei disegni più noti di Frédéric Bruly Baubré: Antique art africain: Bruly et la scarification o La montée dell’umanité au ciel: un nuage blanc figurant un “enfant”, raffigura una nuvola a forma di bambino; Una divine peinture scriptuaire relevée sur un “fruit banane jaunie”, raffigura una banana con degli strani segni sulla buccia. Bruly Baubré ha creato anche un sillabario universale in lingua Bété di 448 pittogrammi che rappresentano scene della vita e sono sinonimo di parole a sillaba singola. Lettere che ha usato per trascrivere la tradizione orale del suo popolo. Una comunità riunita attorno a racconti e storie.
 Tutti a cercare un riparo, qualcosa a cui appigliarsi persi nelle micro diaspore che ci riguardano, popoli interi e piccole comunità perse tra le case di mattoni. Basterà un simbolo a attenuare gli scontri, gli odi razziali?

Sussidiario

Ho visto Brike Line il film di Sara Gavron tratto dal romanzo di Monica Ali sulla comunità bengalese, di origine rurale, la più numerosa in questa zona di Londra che dai tempi degli Ugonotti francesi è il quartiere nel quale permangono da sempre i nuovi immigrati prima di spostarsi in altri quartieri. Al tempo della sua realizzazione, il film creò non poche polemiche all’interno dei gruppi più ortodossi, al punto che la produzione decise di girarlo in altre zone di Londra. A distanza di qualche anno, oggi quest’area è la visione turistica di se stessa. Hanno perso tutti.
Ricordarsi di andare a vedere Bangla di Phaim Bhuiyan, ambientato a Torpignattara.

La comunità non è mai un rifugio, un idilliaco conservatore di tradizioni che non implichino scontro e delusioni. Come ben sapeva anche Maria Lai, le storie e, i luoghi nelle quali si raccontano, sono la linfa di una comunità, ma anche covi di serpi, luoghi in cui districare i nodi, rendere innocui i veleni. Il progetto del lavatoio di Ulassai realizzato con Costantino Nivola, ha consentito un’operazione di recupero sia del monumento che dell’uso che ne veniva fatto, un luogo di socialità, prima che entrassero nelle case le lavatrici. La tradizione del contos, della poesia orale, della letteratura nasce dalla socialità. Spesso le opere hanno origine in una leggenda, come quella di Legarsi alla montagna. La comunità si aggrega attorno alle storie. L'arte come risorsa.

Sussidiario

E’ la fine degli anni Settanta. La crisi della pastorizia, lo spopolamento dei piccoli centri, il miraggio del petrolchimico, l’emigrazione. L’amministrazione comunale di Ulassai, il suo paese, ha in mente un monumento ai caduti e per la sua realizzazione pensa a Maria Lai, che rifiuta di realizzare un monumento di questo tipo, propone in cambio “Legarsi alla montagna”. L’idea nasce nel 1979 e, ci vorranno ben due anni prima che il progetto possa prendere forma. Il progetto è molto più complesso di un monumento ai caduti, è un monumento ai resilienti. L’idea è quella di un’opera che coinvolga, nei due anni successivi, tutto il paese. Due anni di incontri e scontri che mettano d’accordo le persone, superino le inimicizie, le fazioni, che creino quei legami necessari per la comunità. Scegliendo quest’ultima e non le pietre Maria Lai ha innescato un meccanismo che non si è più fermato. La leggenda: durante un furioso temporale, una bambina è attratta da un nastro che vola nel cielo ed esce dalla grotta dove si è rifugiata. Un gesto a prima vista sconsiderato la salverà da una frana devastante. Un elemento poetico, un sogno, qualcosa di colorato opposto al degrado, all’inimicizia. Un racconto, un'artista, una comunità, una montagna e ventisei chilometri di stoffa azzurra.

L’idea di comunità sognata o reale, aspirazioni e vita concreta, radici, tradizioni o acquisizione di modelli preconfezionati imposti dall’alto, sincera spiritualità comunitaria, senso del sacro sedimentato di generazione in generazione o fuochi fatui, non è facile decifrare i segnali dell’uno o dell’altro. Ci sono i luogo sognati e la realtà vera. Ci sono luoghi immaginati e luoghi vissuti. La Sardegna che ho vissuto non è quella del turista medio che immagina una terra di vip in bikini circondato da greggi di pecore. C’è stata un’epoca, forse ancora è così, in cui la Sardegna veniva immaginata come un luogo esotico al pari di isole caraibiche. Per me è stata un terreno di esperienza. Anche la Toscana vive questa contraddizione. C’è San Gimignano pulita e medievalmente vendibile e c’è Livorno. C’è una terra da cartolina come la Val d’Orcia e i luoghi concreti, veri come i capannoni nella aree industriali di Prato, San Donnino, Osmannoro. Gli artisti come al solito cavalcano le contraddizioni. Un paio d’anni fa, il pittore Liu Xiaodong, per un progetto di residenza artistica si è ispirato a questi luoghi, alle contraddizioni del paesaggio sognato e del paesaggio vissuto. Ha deciso di realizzare alcuni dipinti di paesaggio rappresentanti la Toscana sognata, la Val d’Orcia e i luoghi della vita reale di Prato dove vive la comunità cinese più popolosa d’Italia, ormai arrivata alla terza generazione.

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La serie Chinatown di Liu Xiaodong rappresenta persone e luoghi incontrati durante il suo soggiorno. Nate dalle esplorazioni e dalle fotografie fatte dall’artista nel Macrolotto Zero, punto di arrivo della migrazione cinese a Prato tra gli anni Ottanta e Novanta, ritraggono momenti banali della vita di queste persone, colte in tutta la loro dignità e normalità. Si incrociano sulle tele i temi l’appartenenza identitaria, il conflitto e i destini incrociati delle due città di Prato e Wenzhou, luogo di provenienza della maggior parte dei cittadini cinesi presenti nella città toscana, che rivela la particolarità sociale e storica della migrazione cinese a Prato.


La prima volta che sono stata a Prato pioveva. Con Roberto ci siamo persi e ritrovati a China Town. Andavamo al Centro Pecci, per arrivaci con l’auto non è necessario entrare nel centro storico, per questo conoscevo i margini esterni della città e niente di più. Ci siamo tornati molte volte da allora, soprattutto dopo la riapertura in occasione dell’ampliamento, l’ultima volta per vedere Tomorrow Is the Question di Rirkrit Tiravanija.
Ho scoperto la Prato medievale e ottocentesca qualche anno fa, arrivata in città col treno, in una giornata di sole di fine estate: il fiume, il castello federiciano, il duomo, i vecchi opifici.


 

Sussidiario

Tomorrow Is the Question di Tiravanija riattiva a distanza di anni il progetto dell’artista Jùlius Koller. Koller installò nel 1970 in uno spazio espositivo di Bratislava tavoli da ping-pong e invitò i visitatori a giocare. Tiravanija ha riempito una delle sale del museo Pecci di Prato di tavoli da Ping-pong su cui campeggia la scritta “domani è la questione”, invitando il pubblico a prendere parte alla mostra giocando e incitando quelli che giocano.
La questione del futuro è la questione dell’impegno comune, mi sembrava interessante parteciparvi.

 

L’artista inglese di origine nigeriana Yinka Shonibare lavora sull’identità e per le sue opere trae ispirazione dal mondo coloniale vittoriano, lo stile del dandy e le sue mitologie. Le installazioni che vidi qualche tempo fa a Firenze mi fecero pensare a certi statue processionali come la Madonna Assunta. Il manichino di una statua processionale non è molto diverso da una stampella, è il corredo a definirne lo status. Il manichino è composto sostanzialmente di una testa di legno montata su un torso di pagliericcio a cui sono attaccati gli arti di legno; possiede un corredo di abiti e accessori, scarpe, parrucche e gioielli che la definiscono, ne determinano l’identità. Se l’aspetto devozionale non compromettesse il rispetto religioso dovuto a questi oggetti, un manichino con differenti abiti e accessori potrebbe benissimo interpretare differenti santi. Anche le sculture di Shonibare indossano la loro identità, sono strutture metalliche, niente di più, a definirle sono gli l’abiti. Per la confezione degli abiti che hanno una foggia vittoriana molto precisa, utilizza l’african wax prints, il tessuto cerato olandese con cui sono cuciti gli abiti tradizionali africani. La storia di questa stoffa è la storia dell’economia coloniale, imposizione di merci e schiavitù. Stoffe in cambio di corpi. Queste stesse stoffe sono oggi sinonimo di tradizione e appartenenza.

Sussidiario

L’african wax prints è un batik realizzato in olanda nel negli anni sessanta dell’ottocento per il mercato indonesiano, che non lo prese affatto in considerazione in quanto veniva ritenuta una stoffa di fattura mediocre. Stranamente diverrà l’emblema dell’eleganza africana. Gli olandesi che avevano dei porti in africa iniziarono a smerciarlo in quella che veniva chiamata la costa d’oro, attuale Ghana, da cui si diffuse in molte aree dell’Africa divenendo una stoffa tradizionale.

 

Roman holiday

L’estate scorsa abbiamo intrapreso un altro dei nostri viaggi-escursione, questa volta in auto, da Perugia direzione Ostia antica. La mia mente traccia linee di collegamento a cui non avevo mai fatto caso: una mappa di desideri monchi da completare come un puzzle. Viste le connessioni emotive determinate dalle visioni infantili, l’antico porto romano si è rivelato quasi una visita a parenti lontani. Dei tanti edifici che volevamo vedere c’erano i tre mitrei menzionati sulla guida, due quel giorno erano chiusi, l’unico visibile era interessante, ma per certi verso non soddisfacente. Poi, casualmente, vagando in rete, abbiamo scoperto che nel 2017 è stato riaperto al pubblico il Mitreo di Londra: eretto nel III secolo dopo Cristo da un certo Vulpius Silvanus, veterano dell’esercito romano. Il desiderio parzialmente realizzato di visitare questo tipo di tempio ci ha condotto in una Londra inconsueta; il tempio si trova in piena City, circondato da palazzi di vetro e cemento, nei sotterranei del Bloomberg building, una società che si occupa di media, tv e comunicazione, proprietà dell’ex sindaco di New York.
La ricerca di un mitreo nella City può risultare difficoltoso, soprattutto per chi le aree archeologiche le ha sempre visitate in piena campagna o semplicemente all’aperto. Lo sguardo fa fatica a riconoscere la differenza tra una banca, un palazzo adibito a uffici finanziari e un mitreo. Quel giorno pioveva. Ma va? Chissà come mai.

- Come sarà il suo involucro?

- Un grattacielo in vetro, immagino.

Cercare qualcosa di cui non conosci la forma, peraltro sotto la pioggia, è snervante.

- Hai controllato l’indirizzo?

- L’indirizzo è giusto. Dovrebbe essere qui.

D’un tratto lo sguardo cade sulla porta a vetri di un edificio che avevamo scambiato per una banca. Una scritta grigia: London Mitreum, Bloomberg SPACE. Una meraviglia.

Sussidiario

Ritrovato negli anni cinquanta durante gli scavi per la ricostruzione dell’area est di Londra dopo i bombardamenti della guerra. Spostato e ricostruito in Queen Victoria Street oggi è tornato nella sua sede originale. Sappiamo che il tempio fu eretto da Vulpius Silvanus soldato della II legione Augusta, nel III secolo, da un’iscrizione incisa su un altare, ritrovata durante gli scavi dell’area a fine ottocento.
Costruito a pianta rettangolare, dieci metri per cinque, al contrario di molti mitrei, non è stato realizzato nella sua forma ipogeica bensì in alzato. In un primo tempo gli archeologi pensarono fosse una basilica paleocristiana: tre navate divise da due file di colonnine, un’area per l’altare, sedili lungo le pareti. Il ritrovamento di alcuni resti tra i quali una testa raffigurante mitra ne hanno consentito la corretta attribuzione. Dopo gli scavi archeologici in occasione della costruzione del nuovo palazzo di Bloomberg, la struttura è stata ricollocata nel sito originale, musealizzata e aperta al pubblico.
 

Ci accoglie uno Stuart clone dei commessi di via Tornabuoni, stesso abito, bellezza, età. E’ gentile, sorridente ci avvolge di parole setose, efficaci allo scopo e ci consegna due tablet per la visita. L’ingresso è gratuito ma su prenotazione. Oggi non c’è molta gente handsome guy ci fa entrare. Fradici e un po’ confusi cerchiamo di capire come funziona lo spazio. All'ingresso un progetto d'arte contemporanea dell'artista argentino  Pablo Bronstein. Nella prima sala, su una teca verticale alta fino al soffitto, è collocata una selezione di oggetti ritrovati nell’area durante gli scavi preliminari all’edificazione del Bloomberg building. L’esplorazione ha consentito la raccolta di nuovi dati ed è stato possibile riportare l’edificio nel suo sito originale. Dopo il ritrovamento nel 1952 era stato smontato e collocato altrove, a circa duecento metri. Il motivo? Non so dire. Sono numerosi gli oggetti in cuoio e legno, di solito difficili da trovare integri, ma come testimoniano i recuperi nell'area del Vallo di Adriano, la composizione del terreno di quest’isoletta è particolarmente adatto alla conservazione di materiali deperibili, che come al solito sono quelli più appassionanti: scarpe, oggetti in cuoio, porzioni di porte, chiodi, coltelli col il manico in osso, gioielli e tavolette di cera, le antenate analogiche del nostro tablet. Il conto alla rovescia di un orologio a cristalli liquidi, piuttosto voluminoso, collocato su una parete, scandisce il tempo tra un ingresso e l’altro al vero e proprio monumento, che si trova sette metri sotto i nostri piedi. Nell’attesa consultiamo le postazioni digitali sistemate in una stanza dalla luce soffusa. Attraverso un sistema intuitivo, abbastanza semplice, leggiamo la storia del sito, alcune piante illustrano l’impianto architettonico e la funzione dei vari elementi, il tutto è sintetico ma efficace. Le sculture esposte sono poche, tra queste una testa di Mitra. Mentre leggiamo le schede didattiche teniamo d’occhio il countdown. E’ ora. L’ingresso al tempio avviene passando per una scala molto ampia, che lungo il muro riporta una time line: 1941 una bomba distrugge l’edificio che si trovava in questo sito, 1838 incoronata la regina Vittoria, 1666 il grande incendio di Londra e, sette metri sotto l’attuale piano stradale, sull’ultimo scalino, 410 dopo Cristo, data di fine della dominazione romana. Ci troviamo a livello del piano stradale dell’antica Londinium. Entriamo in una sala dall’illuminazione soffusa, i resti mostrano chiaramente la pianta dell’edificio e la divisione degli spazi. Giriamo attorno al perimetro lungo una passerella, sul fondo, su una lastra di plexiglass è collocato un disegno della famosa rappresentazione del mitra tauroctono. Mentre osserviamo i vari elementi architettonici rimasti, dalla penombra sorge in forma olografica l’alzato del tempio, si sentono voci arrivare dal passato, i “fantasmi” si muovono, ne sentiamo i rumori, parlano tra loro. L’ologramma e i suoni permettono ai visitatori un’esperienza sensoriale e allo stesso tempo conoscitiva. Il viaggio a Londinium prosegue a pochi metri da qui, sotto la Guildhall Art Gallery. Sotto l’edificio, danneggiato anche questo dai bombardamenti del 1941, sono stati ritrovati i resti di un anfiteatro del II secolo d.C. Anche qui i giochi di luci ricreano le scalinate, i posti a sedere nonché le sagome degli spettatori e dei gladiatori. Dell’edificio restano solo alcuni frammenti di mura dell’ingresso orientale; è possibile concepirne le dimensioni dall’esterno, sulla piazza sono segnati i punti che delimitavano l’edificio, così da dare un’idea delle reali proporzioni. Poteva contenere 6000 posti. In un’area di dimensioni modeste, circondata da edifici moderni, per poche ore fingiamo di essere a Londinium.
Bizzarro.
Tornati in quell’angolo di Liguria che abbraccia la Toscana, dopo qualche giorno decidiamo di visitare Luni, l’antica città romana. Profumo di macchia, salmastro e i resti di un anfiteatro. In primavera avevamo visto la fortezza di Sarzanello, e ci eravamo resi conto che non avevamo mai visto Luni. Una scelta totalmente sganciata da ciò che avevamo visto a Ostia e poi a Londra, non pensammo affatto ad un qualche legame, eppure, l’anfiteatro di Luni ha completato l’opera. Un luogo ha permesso l’emersione dell’idea dell’altro, ogni frammento ha illuminato qualcosa che sembrava ancora in ombra. Sullo sfondo il disegno di un mare affollato di polpi, cernie, calamari, sardine, conchiglie realizzato con piccole tessere musive bianche e nere sul pavimento di un edificio scomparso: Turris.

Bibendum
Lo so, tutti cercano la maniera per saltare la fila, eppure ci sono contesti e contesti, certe file vanno percorse e vissute; mi piacciono particolarmente quelle di composizione ultra internazionale dove c’è la ragazza giapponese con trench Burberry color cachi, calzine bianche, sandali e borsetta Vuitton o quella, sempre giapponese, stilosissima con gonna di seta plissettata, t-shirt bianca e sneakers ultra lucide, brillanti; più avanti trovi sempre una coppia cinese ottantenni con cappellino antipioggia e impermeabile di plastica. Adorabili! Poi ci sono i nordici: russi, scandinavi, tedeschi che a qualsiasi temperatura vanno in giro in canottiera e sandali; sono inquietanti almeno quanto quelli che in valigia mettono un po’ di questo e un po’ di quello, perché forse farà caldo oppure pioverà. Nelle città a forte affluenza turistica, soprattutto in Italia, incontri indifferentemente chi sembra andare in spiaggia e altri pronti per scalare le alpi. Personalmente prediligo chi abbina elementi di abbigliamento di varie stagioni, lunghezze e materiali a caso. Io mi identifico molto con questa categoria, perché ho difficoltà a fare la valigia. Da molti anni ho un metodo quasi scientifico, la mia appare come una divisa, ma raramente rischio l’effetto calzoncini e stivali da pioggia e, quando accade è voluto, così per autoironia. Mi vesto a strati. Sembro ancora più cicciona. Se appaio in qualche foto, ed è raro perché le scatto io, sembro il Bibendum della Michelin. C’è una foto, che mi ha scattato Roberto, mi piace molto, ho le gambe sottili e il busto cubico, outfit zen londinese: metti la giacca, togli la giacca, metti la giacca, togli la giacca. Orripilante! In realtà rappresenta benissimo il tipo di contesto psicologico che vivo in queste occasioni, sempre inadeguata all’idea che vorrei dare di me. Se sono presente, l’immagine è riflessa sui vetri dei dipinti, sulle teche delle opere. Un dipinto protetto dai vetri riflette l’ambiente circostante, riflette me. Tutte foto sbagliate. Mi diverte costruire immagini sfuocate, incerte dove appaio un fantasma nell’arte, perché in fondo è così che mi sento. Tuttavia, Bibendum esiste e vive a Chelsea alla Michelin House, un edificio proto-déco degli anni dieci, in ferro cemento, vetrate colorate e ceramica. E’ stato il garage dei noti pneumatici, la celebrazione dell’automobile, della velocità, realizzato con il materiale più antico della storia dell’homo faber: l’argilla. Oggi è un ristorante, eppure sembra la stazione dei pompieri versione lusso del film Ghostbuster.
Proprio a Chelsea ha avuto una fabbrica di ceramiche William De Morgan ceramista e scrittore, collaboratore di William Morris, preraffaellita, figlio del matematico Augustus. Ispiratosi alla ceramica medioevale araba e mediterranea, applicò la simmetria speculare alle decorazione di piastrelle e piatti vittoriani realizzando fiori, pesci, pavoni e draghi usando una tavolozza di origine persiana. Non è paragonabile a ceramisti di alta levatura comunque interessante. Alla mostra ho comprato quattro spillette tratte dai suoi piatti ceramici arabeggianti alla modica cifra di 2 pound. Souvenir vittoriani di pura plastica, made in Cina. Gli inglesi pensano di essere ancora un impero e inciampano sui loro stessi sogni di grandezza. C’è confusione.
All’attuale disordine si è ispirato Grayson Perry, artista seducente e ironico, che dei materiali tradizionali, dell’artigianato ha fatto il suo terreno di lavoro e ha scelto la ceramica per rappresentare lo scontro sempre più grottesco e ripiegato su se stesso tra Brexiteers e Remainers. Due vasi di forma classica sfruttano il bagaglio iconografico e la dimensione domestica per condurci in un'altra dimensione, perturbante e incerta. Sfruttando i social media, ha invitato il pubblico britannico a contribuire a idee, immagini e frasi per coprire la superficie dei due enormi vasi: uno per i Brexiteer e uno per i Remainers.

 

Sussidiario

Per l’apertura della mostra The Most Popular Art Exhibition Ever! Alla Serpentine, Gallery Grayson Perry ha creato Long Pig, un enorme salvadanaio dalla tradizionale forma a maialino, in questo caso a due teste, una sorridente e l’altra arrabbiata e undici fessure riconducibili a categorie sociali considerate perdenti o vincenti. Mi sono sentita parte in causa.

Trovare un posto dove stare non sempre è facile. Appartengo ad una categoria? A quale categoria vorrei appartenere? A Quale realmente appartengo? Galleggiamo in uno stato di sospensione per cui non si è mai appagati, uniamo a questo una perenne condizione di incertezza acquisita e ciò che otteniamo è un disastro. L’ironia può essere uno strumento di affermazione. Perry ad esempio si presenta in pubblico impersonando il suo alter-ego Claire, una figura femminile vestita come Alice del film Disney.
Lo stato di sospensione determinato dalla Brexit è un Drama-comedy, un’esperienza surreale, persino le persone che hanno partecipato con i testi alla scrittura dei vasi hanno probabilmente già cambiato idea.
Questa faccenda mi fa ricordare il film Jumanji. Dei ragazzini trovano un gioco da tavolo che si rivela svincolato dalle scelte dei giocatori, uno svago da cui potrebbero non uscire mai più. Non hanno idea di ciò che potrebbe accadere veramente una volta avviato, tant’è, curiosi come scoiattoli, lanciano i dadi, per provare. Il primo tira e si ritrova quarant’anni nella giungla, inseguito da qualsiasi tipo di predatore. Spera nell’altro giocatore, che rilanci, lo liberi, ma l’altro si è scordato, non sa più del gioco, sono passati anni. Mentre la sua vita continua in una corsa senza fine, potrebbe accadere che il suo compagno non tiri mai più i dadi, che il gioco si fermi lì. Brexit or Remain?


Chimere soap-plaster-casting

Sussidiario

Molti artisti utilizzano pratiche tradizionali o ritenute specifiche dell’artigianato penso l’uso della tessitura negli arazzi o il patchwork di Grayson Perry, Kiki Smith. Gli arazzi e le trapunte sono passate di moda, il carro della ceramica sta guadagnando velocità e negli ultimi anni è regolare trovare opere realizzate con questo materiale.

Mi ricordo che spesso lo scarico della lavatrice saltava dalla sua posizione e capitava di trovare il bagno allagato, di solito ad avvisarci era la nostra cagnetta Samantha, che alla vista dell’acqua sul confine del corridoio iniziava ad abbaiare, salvando così il resto della casa da inondazioni bibliche. Una volta l’acqua arrivò al contenitore di cartone del sapone in polvere, l’incidente l’aveva addensato in una poltiglia maleodorante, perché asciugasse o in attesa di buttarlo via, mia madre lo lasciò in terrazza. Certi esperimenti che facevo da bambina riguardavano la scultura. Una volta sperimentai delle sculture di sapone. La terrazza era il mio laboratorio da alchimista, il luogo dove trasformavo gli scarti in gioco, la fantasia in avventure. Avevo tutto ciò che serve per sognare. Quella poltiglia aveva qualcosa di attraente, forse l’odore, forse la consistenza spugnosa. Ne misi una piccola quantità in una delle pentoline di alluminio smaltato con cui giocavo. I giochi per bimbi un tempo erano soltanto la versione in miniatura degli oggetti per adulti, si usava ancora molto il metallo. A quella poltiglia addizionavo, con una grattugia per noce moscata, una piccola quantità di gesso colorato. I colori saturi del gesso, la spugnosità del detersivo davano a quella pappa una consistenza e una bellezza da scultura pop. Aveva la caratteristica di asciugare molto in fretta, così potevo aggiungere elementi e decorazioni colorate. Dalle formine da spiaggia venivano fuori torte e pasticcini e tutta una serie di strane sculture fatte di elementi indigesti, forme decadenti come in una sorta di sand-casting saponoso. Ricordo ancora l’odore di sapone bagnato, l’odore del bucato asciugato male, di scarpe da tennis. Confection di Francesca Di Mattio mi fa pensare a quelle chimere, non ho ancora capito se mi piace o è semplicemente un déjà-vu. Entrata nella sala, è una delle opere che ho notato immediatamente. Ricordo di essermi diretta verso Confection senza indugio, ma non perché la ritenessi bella o meritevole di interesse, volevo capire cos’era, come quando si viene attratti da qualcosa di repellente, vorresti staccare lo sguardo ma la curiosità ti fa aprire gli occhi. Sono sculture artificiose, sanno di putrefazione, come le mie soap-casting. La scultura che ho davanti ha tutta l’aria di una torta abbondantemente decorata rovinata al suolo, anzi, quel che rimane dopo che per uno strano sentimento di pietà qualcuno ha provato a rimetterla insieme. Pezzi di vasi, manici a forma di proboscide o code di scimmia, pastorelle di Sèvres e insetti molesti di Maissen, a fare da collante una pappa simile per colore e consistenza alla zuccherina glassa per dolci. Persino alcuni decori simili a riccioli di meringhe e roselline di zucchero fondente sembrerebbero fatti con la saccapoche da pasticcere. I frammenti non sembrano originali, le proporzioni non corrispondono a quelle dei vasi che mi pare di riconoscere, eppure a guardarli restituiscono bene la sincerità delle porcellane a cui si riferiscono: manifattura Maissen, frammenti di ceramica di Iznik, porcellane di Sèvres, gres Jasperwere tutti assemblati in una sorta di grande ammasso in equilibrio precario. Nel tentativo di capire il senso di questa poltiglia potrei dire che l’artista, Francesca Di Mattio, newyorkese, persegua l’obiettivo di verificare i limiti, fino alle estreme conseguenze, del mezzo che si trova a lavorare, fino a produrre effetti piuttosto contrastanti al confine tra il desiderio goloso di dolci e il disgusto, il gradimento di certe decorazioni classiche e la repulsione. Una mosca nel piatto.



Sacri monti

La Città di Gerusalemme di San Vivaldo è un Sacro Monte, nel comune di Montaione provincia di Firenze. Immerse in un bosco, una serie di cappelle e casette ricostruiscono la topografia dei luoghi sacri di Gerusalemme legati alla vita di Cristo: la valle di Giosafat, il giardino degli ulivi; una compensazione per chi non poteva recarsi in pellegrinaggio in Terra Santa e immaginava di percorrere le vie di una città desiderata. Ogni costruzione, simile ad una casetta nel bosco, ad una cappella o una piccola chiesa di campagna riserva al suo interno una sacra rappresentazione in terracotta raffigurante una scena del nuovo testamento. Dopo le piogge torrenziali di questi giorni ci tornerò, stavolta accompagnata dallo sguardo lucido di Edith Warthon che durante un viaggio, non paga delle notizie apprese, aprì una questione di attribuzioni.

 

Sussidiario

Nel 1893 Edith Warthon, la famosa scrittrice newyorkese, visitò il santuario di San Vivaldo per vedere alcune grandi statue di terracotta attribuite a Giovanni Gonnelli, scultore del XVII secolo, di cui aveva sentito parlare. Ricordava di aver visto al Bargello opere simili “alcuni dettagli di capelli e panneggio” “la ricorrenza dello stesso tipo di faccia” notevoli esempi di arte del Quattrocento, in questo caso in ritardo. L’intuizione fu che non c’era ritardo ma le opere potevano essere benissimo di scultori quattrocenteschi. Chiese ai fratelli Alinari di scattare alcune foto e le spedì al professor Enrico Ridolfi, allora direttore dei Musei Reali di Firenze. Viste le foto il professore si convinse dell’errore di attribuzione. Studi recenti attribuiscono una somiglianza stilistica all’opera di Giovanni della Robbia a tre su cinque dei gruppi fotografati. La Warthon Pubblicò il suo resoconto in un articolo del 1895 e in seguitò riportò l’episodio in Scenari italiani, pubblicato nel 1905.

 

Vasi, cornucopie, ghirlande, madonne, crocefissioni, santi e angeli invetriati; sobborghi operai e case borghesi, palazzi vittoriani rivestiti di stucco bianco, insulae romane, pavimenti di conventi, chiostri maiolicati, stazioni della metropolitana. Fango, sempre fango, origine del mondo.
Alcuni nuovi scenari hanno necessità di tempo per armonizzarsi con il paesaggio o l’ambiente urbano. E’ pure vero che non tutto risulta a prima vista piacevole o accogliente. Nei pressi della stazione di Edgware Road, cercando di evitare la pioggia a scrosci, alla ricerca di una nota galleria d’arte, faccio notare a Roberto - che nel frattempo punta la sua App-bussola alla ricerca dell’indirizzo- qualcosa di colorato, un edificio dissonante. Ricorda edifici visti in Italia dove fino agli anni settanta era possibile trovare palazzi rivestiti in mattonelle. Un ospedale? Ci avviciniamo, ci giriamo intorno, scatto le mie foto sbilenche. Troviamo una targa. Ci informa che si tratta di un intervento di arte pubblica. Nel 2012 l’artista belga Jacquelin Poncelet ha realizzato un opera non apprezzata moltissimo dagli abitanti del quartiere, soprattutto non nell’immediato, un muro di rivestimento realizzato con 700 pannelli di piastrelle in smalto vetroso, che rimandano a decorazioni tradizionali o semplicemente evocative del patchwork delle comunità locali. Questa zona di Londra è abitata soprattutto da nord africani e arabi: marocchini, libanesi, egiziani. Alle otto del mattino i tavolini fuori dai bar accolgono i mattinieri del narghilè. Basterebbe una visita al V&A per capirne le implicazioni antropologiche, estetiche e sociali. Tutto torna, l’enorme edificio colorato ospita gli uffici della metropolitana di Londra. L’evocazione del materiale ceramico in un’opera di rivestimento parietale riporta alla memoria vecchie tradizioni architettoniche locali poiché molte vecchie stazioni della metro conservano ancora il loro rivestimento in ceramica, alcune sono anche molto belle. Nella storica stazione di Edgware Road, le finestrelle della biglietteria, non più in uso, sostituite da pratiche biglietterie elettroniche, sono in ceramica verde.
 


ARC
 

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