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giovedì 5 marzo 2015

Conversazione con Giovanni Presutti/ artista

Incontro Giovanni Presutti a Firenze, dove vive e lavora.
Mi racconta dei progetti precedenti, di Synap(see), il collettivo di cui fa parte da quattro anni, e del nuovo progetto nelle aree protette, nei Parchi Nazionali.  
La scelta della fotografia è una sorta di chiamata. Dopo la Laurea in Legge, infatti, abbandona la giurisprudenza e studia fotografia, si diploma alla scuola Arte di Firenze e all’istituto Kaverdash di Milano. Entra a far parte del prestigioso Reflexions Masterclass, guidato da Giorgia Fiorio.
Da subito rivolge il suo interesse alla ricerca personale e al reportage di approfondimento. La sua ricerca è orientata verso la contemporaneità sia nell’ osservazione delle sue devianze, che nelle analisi del territorio.

A.R.C. I tuoi lavori, da una parte sono un viaggio nel presente, nella realtà del quotidiano, temi che toccano l’ambiente e il paesaggio, come per Eolo, dall’altra riguardano una ricerca più specificatamente legata alle ossessioni come Hello, Dolly! Dependency. Cosa hanno in comune questi lavori?
Dependancy
G.P. La cosa che li unisce è l’analisi della contemporaneità e la criticità della contemporaneità.
Un lavoro come Dependency, così come Hello, Dolly! hanno una messa in scena, sono costruiti su un immaginario.
Con altri , come il lavoro Contemporanea a prevalere è il rapporto con il territorio. Sto attento sempre ad uno stile rigoroso, di ricerca preliminare nei contenuti e un risultato visivo fine art.
Entrambi i lavori sono comunque un’analisi del territorio con riferimento alla contemporaneità, allo stile di vita, alle scelte sui consumi. Dependency infondo è questo: il consumo che crea dipendenza.

A.R.C. Parlami di questo lavoro Contemporanea di cosa si tratta?

Contemporanea, Maxxi, Roma
Nel lavoro Contemporanea metto in luce soprattutto le opere delle archistar. 
Spostandomi in tutta Europa da una città all’altra, ho indagato le architetture costruite nell’ultimo decennio, opere di grandi maestri quali Libeskind, Foster, Meier, Calatrava, Zaha Hadid.
Un’omologazione culturale completa. Ho fotografato edifici in tutta Europa, se togliessi la didascalia sarebbe irriconoscibile il luogo di appartenenza, sono tutte uguali, costruzioni spettacolari realizzate con le più moderne tecnologie e i materiali più innovativi, eppure assolutamente omologate.
C’è questo senso di livellamento in superficie, non c’è un interesse a lavorare sul territorio. Ci possono essere delle piccole variazioni, ma le linee globali, sia delle strutture che dei materiali sono sempre le stesse. E’ raro che si diversifichino. In Spagna ho trovato un edificio in legno, una progetto di residenza sociale, un unicum.
Anche qui ho reso operativa un’attenzione particolare al risultato finale, molto rigoroso. C’è un lavoro preliminare di ricerca e, un lavoro di riorganizzazione del materiale molto preciso. 
Eppure, la distinzione tra un luogo e l’altro, un edificio e l’altro è nella scansione dei capitoli, nelle didascalie.

A.R.C. Fotografia e video, Street art e tatuaggi sono pratiche immediate e reattive rispetto alle azioni di confine, permettono di agire sulla pelle delle cose. La pelle delle città e la pelle delle persone, il resto sembra essere insignificante, ripetitivo. Cosa ne pensi?
G.P. Nell’arte contemporanea si sentono ripetere i soliti stereotipi. Oggi è importante tornare alle proprie origini, perché bene o male quello che può dare un senso ad una ricerca artistica è una visione personale, cercare il più possibile di lavorare sul proprio territorio.
D’altra parte si viaggia, tutti vanno da tutte le parti, è importante lavorare all’estero, anche se in questo modo tendi ad uniformarti ancora di più. Puoi tirar fuori l’originalità quando lavori nel tuo territorio.
Quello che tendo a fare è proprio questo.

A.R.C. In Hello, Dolly! costruisci una visione del futuro per mezzo di immagini allusive di una rappresentazione cinematografica. In luoghi noti, in un contesto riconducibile ad un ipotetico futuro, piuttosto inquietante, fai vivere ad una bambola esperienze paradossali.
Parlami di questo lavoro, della scelta di questo personaggio e dei paesaggi urbani nei quali si muove.
Hello, Dolly!
G.P. Dolly non è una bambolina. E’ una Winx alta un metro.
Per rappresentare il futuro, ho scelto come ambientazione i luoghi del consumo, vissuti di notte, quando in realtà non c’è nessuno, perché di notte sono deserti. Volevo dare il senso dell’abbandono, sia in un futuro ipotetico, nel quale la Winx si muove, sia del presente. Se vai in quei luoghi di notte sono comunque abbandonati.
La maggior parte delle ambientazioni, delle atmosfere, hanno un richiamo ai film di fantascienza come Matrix, 1997 fuga da New York, Blade Runner. C’è un doppio livello di lettura. Da una parte ho lavorato sull’inconscio collettivo del futuribile e del catastrofismo. Oramai sono cinquant’anni che nel cinema americano e, qualche volta anche europeo, viene raccontato questa idea di futuro catastrofico, quindi a partire da questo substrato creo un’ atmosfera di futuro aggiornata alla realtà di oggi.
Questo senso di catastrofe e di paura del futuro in qualche modo ce lo portiamo dentro. Pensa anche ai problemi ambientali. Non fare sufficiente resilienza oggi, non adottando modelli di decrescita ma modelli comportamentali deviati, si arriva a quel futuro là.

A.R.C. A proposito di problemi ambientali. Hai realizzato un lavoro Eolo che tratta proprio dell’ambiente, del futuro e delle risorse sostenibili. Raccontami di questo lavoro, come è nato? Come lo hai sviluppato?
Eolo
G.P. E’ una cosa che mi ha sempre affascinato, però mi rendo conto che non posso dare un giudizio positivo o negativo. Il giudizio dipende da dove i parchi eolici sono stati impiantati, nel rapporto con la comunità locale.
Per realizzare il lavoro, prima di tutto mi sono documentato e, ho scoperto che al 95% i parchi eolici sono presenti nel meridione. Li ho visitati tutti, a uno a uno, perché volevo mettere in evidenza come questi convivessero con l’ambiente e con le comunità del luogo. Era una cosa che non poteva essere fatta a meno che non li facessi tutti. Tutte queste situazioni sono strane: c’è un parco eolico di fronte ad uno stadio, uno vicino ad un parco giochi. E’ evidente che non sono presenti solo in cima ai monti, dove siamo abituati a vederli, dove sembrano tutti uguali.

A.R.C. A cosa stai lavorando in questo momento?
G.P. Sto lavorando sul Parco dell’Arcipelago Toscano: l’isola d’Elba poi l’isola del Giglio, Pianosa, Capraia, Montecristo. Ho scelto di lavorare su qualcosa vicino a me, che conosco bene, cercando di dare una visione vera, priva di preconcetti.
Un aspetto che mi interessa è quello relativo all’ inquinamento della plastica. L’isola d’Elba è uno dei posti che ha una concentrazione maggiore di plastica di tutto il Mediterraneo. Non so se hai sentito parlare dell’isola di plastica nell’ Oceano Pacifico. Il Mediterraneo ha una concentrazione di plastica maggiore, quella che non vediamo, la plastica sbriciolata. Porto Ferraio ha una concentrazione di questa plastica molto alto. In questo lavoro mi interessava mettere in evidenza la relazione tra questo problema di inquinamento e l’istituto di Parco Nazionale, la contraddizione tra degrado e tutela. In questo lavoro sui parchi cerchiamo di porre in evidenza i limiti del concetto di parco.
Ho iniziato a lavorarci, le immagini sono molto scure, così da porre in evidenza il lato oscuro della contraddizione, sono come avvolte nella plastica. Alcune foto le puoi vedere in intro del mio sito. E’un progetto più ampio sui parchi naturali, è un lavoro del collettivo Synap(see), di cui faccio parte.

A.R.C. Parlami del collettivo. Cos’è Synap(see)?
Hipsta.Nothing
G.P. Il collettivo Synap(see) è nato quattro anni fa. Siamo nove fotografi sparsi in tutt’Italia.
I primi tre anni ci davamo un tema, abbastanza generico. Prima “Terra nostra” un’analisi sociale- ambientale, in quell’ occasione feci Eolo, poi “Un’altra vita” feci Dolly, poi per “Caos” Hipsta.Nothing un lavoro sul voyeuristico cronico da smartphone.
Pur mantenendo una certa autonomia, ci confrontiamo incontrandoci tre o quattro volte l’anno, prendendo spunto dal tema del collettivo sviluppiamo interessi specifici. Il lavoro ha sempre avuto una doppia valenza.
Ad un certo punto però questa strada che avevamo preso ci ha un po’ stancato, sembrava quasi un esercizio di stile: ci si da’ un tema, ognuno fa il suo lavoro e via. Abbiamo deciso di essere ancora più stretti. Abbiamo deciso di collaborare con un curatore e lavora in maniera più precisa sull’idea di collettivo.
Il progetto dei parchi nasce proprio in questa seconda fase.

ARC

 Dove trovare Giovanni Presutti: 






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