domenica 16 novembre 2014

Out side the cave. L'ominide, la “moglie” del cacciatore, la figlia del vasaio e la sorella dell'inventore.

Impronta, 25.000 - 20.000 anni fa
Grotta di Pech Merle, Francia
Che senso ha cercare l’origine dell’arte?
Forse è come per un bambino adottato cercare i genitori biologici.
Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo?
Dato che la cosa è complessa, e le risposte a questo tipo di domanda non sono alla mia portata, cercherò di raccontare, a modo mio, ciò che per consuetudine definiamo “l’origine dell’arte”.
E’ piuttosto difficile individuare l' "origine" dell’arte. Ogni nuovo ritrovamento ci conduce un po’più indietro nel tempo e ogni volta ci imbattiamo in una fanciulla o nelle tracce della sua esistenza.
In questo racconto verranno in mio soccorso, da una parte, l’archeologia e la paleontologia con i ritrovamenti in grotta Makapansgat, Pech Merle, ora anche Sulawesi, dall’altra le leggende tramandate da fonti letterarie, Plinio il Vecchio.

disegno del Ciottolo di Makapansgat
Tra gli studiosi di paleontologia è opinione diffusa che la costruzione di manufatti in pietra sia conseguenza dell'uso precedente del “trovato fatto”. I nostri antenati prima di fare utensili usavano già pietre o schegge di pietra raccolte in natura. Quindi la costruzione degli utensili è una conseguenza del “trovato fatto”, e un perfezionamento di questo, e non potrebbe essere altrimenti, in quanto, non può essere inventato lo strumento del bisogno, se non esiste il bisogno.
Lo stesso processo del trovato fatto per gli utensili - anche se non sono stati trovati reperti sicuri di pietre usate dagli ominidi, prima della fabbricazione di manufatti- si è verificato per l'arte con il Ciottolo di Makapansgat, 3.000.000 anni fa.
Come ho già detto, possiamo affermare la prima manifestazione documentata di pensiero simbolico e senso estetico nella storia dell’essere umano è un objèt trouvè.

Anfora attica a figure nere, 500-490 a.C.,
Kleofrade, tomba dell’Atleta di Taranto.
Come nascono le opere “manufatte”?
Plinio il Vecchio (I sec.d.C.) nella Naturalis Historia (XXXV,15 - XXXV,43) racconta la nascita della pittura e della scultura greca attraverso la narrazione di un mito originario. In sintesi ci dice che la figlia del vasaio Butades la notte prima che il suo fidanzato parta per un viaggio, crea un’immagine sostitutiva di questi tracciando sul muro il contorno della sua ombra, con una doppia funzione, quella di ricordarle il viso dell’essere amato, in partenza per un viaggio o per la guerra, ed esorcizzare i pericoli che lo minacciano. Plinio non lo dice ma è plausibile che il giovane amato muoia in guerra.
Poiché l’essere amato muore da eroe, il padre crea un simulacro, un doppio dello scomparso, una scultura. Il simulacro di argilla diventa oggetto di culto presso il tempio di Corinto.
Plinio ci spiega, sopratutto in termini di mito originario, le convenzioni riguardo la rappresentazione dell’immagine greca arcaica, quella cretese ma anche egizia, - nonostante lo neghi - e il suo ridursi contro un piano. Ci dice anche che a tracciare il contorno del viso sulla parete è una ragazza, la figlia del vasaio Butades.

Kouros, VII sec. a.C. cm 41x67,
Museo archeologico, Delfi
Perchè Plinio attribuisce ad una ragazza l’invenzione del disegno e a suo padre la scultura?
Forse per lo stesso motivo per cui i pittori accademici hanno isolato nelle pieghe dell’obbismo il collage, il bric à brac, l'accumulo, il piccolo punto che Picasso, Depero, Boetti, Schwitters fecero entrare, a buon diritto, nelle gallerie e nei musei in attesa che vi entrassero Clude Cahun, Hannah Höch, Maria Lai. Così come i professionisti della fotografia hanno relegato nel tinello di casa  le foto amatoriali un po’ sfocate definite “realismo ingenuo”. 
Nonostante Plinio parli di una ragazza come l’artefice del disegno, ci si concentra sul padre che realizza la sua scultura in base al disegno della figlia.

Bombing di tags
E prima degli Egizi, dei Cretesi e dei Greci? Chi ci racconta della fanciulla nella caverna di Sulawesi o El Castillo?
Perchè a quanto pare, anche in questo caso si tratterebbe di fanciulla. Forse, la “moglie” del cacciatore?
L'archeologo Dean Snow docente di archeologia all' Università Statale della Pensylvania ha potuto stabilire che tre quarti delle impronte delle grotte di El Castillo, Pech-Merle, Gargas sono femminili.
Sono mani piccole e le donne stavano più a lungo nella grotta, per accudire la prole. Mi sembra plausibile e logico.
Come la figlia del vasaio Butades, la “moglie” del cacciatore vedeva la propria ombra muoversi sulla parete rocciosa, alla luce della fiaccola. E’ plausibile che colleghi l’ombra alla propria figura e senta la necessita di fissare sulla roccia qualcosa che appartiene alla realtà, le impronte, come segno della propria esistenza.
A quale scopo?
Ex Palazzo del Pretorio o del Potedstà,
Colle Val d' Elsa, pareti delle celle,
Museo archeologico R.B.Bandinelli
Una traccia di sé, un segno di individualità impresso sul muro, paragonabile soltanto a quelle che oggi sono le tags, ovvero firme arabescate, tracciate sui muri delle città di tutto il mondo dai writers contemporanei
Non la rappresentazione dell’altro, ma il riconoscimento della propria individualità, della propria esistenza. Mi vengono in mente altri segni sui muri che dicono “sono stato qui”: le impronte dei sandali incise sui conci di alcune chiese romaniche luoghi di pellegrinaggio in Sardegna e, altri segni nei luoghi di pellegrinaggio di tutto il mondo, i disegni e firme nelle celle, nei manicomi. Naturalmente hanno tutte significati diversi, che in questo momento non approfondisco.

ruderi della chiesa di San Francesco,
Bonorva (SS)
Ricapitoliamo.
In un’epoca lontanissima, 3.000.000 anni fa, una ominide riconosce in un piccolo ciottolo di fiume, il Makapansgat Pebble, un’immagine del proprio volto e lo custodisce presso di sé nella grotta.
La “moglie” di un cacciatore in un lontano 49.900 anni fa, fissa sopra una parete rocciosa, alla luce di una fiaccola, un’immagine dei propri arti, come una tags prescrittuale, al fine di lasciare una traccia di sé, prima di un lungo viaggio per uno spostamento al seguito delle mandrie di animali da cacciare, di un evento importante per la sua vita.
Parecchi, ma parecchi anni dopo, per rappresentare l’altro, l’amato, che in seguito sara' oggetto di culto, la figlia di un vasaio traccia sopra una parete l’ombra dell’amato, fissa per sempre il segno della sua esistenza su un muro.
Niecéphore Niepce, Tavola apparecchiata, 1822 circa
Poi arriva Joseph Niecéphore Niepce che nel 1822 realizza quella che convenzionalmente riconosciamo come la prima foto, una natura morta. Una porzione di realtà esposta alla luce, isolata dal contesto, estrapolata dalla realtà: un “ready made” su lastra. E ricomincia tutto da capo. Niente più ombre, niente più simulacri ma reliquie, “essa [la fotografia] pare essere, (anzi, pare funzionare come, (...) una reliquia, dunque non una rappresentazione ma una parte stessa della cosa.“[1]
Non una ”trasposizione simbolica” ma un’emanazione diretta del soggetto. Possederla è come possedere effettivamente una parte del soggetto. A questo proposito veramente interessante leggere il saggio di Marra L’asse Rose/Duchamp.
Continuare a raccogliere la realtà: fotografare l’amato o realizzare dei selfie, estrarre dal contesto un pezzo di realtà e metterla in galleria, su facebook, instagram, twitter, pinterest. Farla circolare.
Mi chiedo: Niecéphore Niepce non aveva sorelle?
A.R.C.

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[1] Claudio Marra, "L’asse Rose/ Duchamp", in L’immagine infedele, Bruno Mondadori, Milano, 2006, pp. 158-159

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