lunedì 20 ottobre 2014

Conversazione con Martina Bassi/ artista.

Incontro Martina Bassi in chiusura della sua mostra òPPERSPEC, alla galleria Wilson Project Spacea Sassari. 
Martina Bassi si interroga sulla natura del guardare attraverso la ridefinizione visiva della materia e del paesaggio. Le opere nascono dall’ incontro tra pratica digitale e intervento manuale.  In una continua osservazione dal particolare al generale, dal consueto all’inconsueto ridefinisce l’orizzonte percettivo su cui agire: lo studio del fenomeno nella sua doppia origine naturale e artificiale. 
La simulazione della materia e illusione della percezione rappresentano l’apertura verso una nuova dimensione spaziale che si manifesta nella commistione di due visioni in contemporanea: micro e macro, vedute paesaggistiche e focalizzazione sul pattern, dettaglio e percezione del totale, dando luogo a inganni ottici e della mente.

Martina Bassi, òPPERSPEC,
Exhibition view,
Wilson Project, 2014
A.R.C. Come è avvenuto l’incontro con Dario Costa?
Come nasce il progetto òPPERSPEC, nello spazio Wilson Project?
M.B. Dario ha visto un mio lavoro, nella mia prima personale “Le Pass” alla galleria Room di Milano, nell’ottobre dell’anno scorso. Gli è piaciuto e mi ha contattata, semplicemente.

A.R.C. Quali sono i tuoi temi?
Su cosa focalizzi la tua ricerca?
M.B. Il mio tema è il massimo tema della rappresentazione visiva ovvero l’illusione.
Martina bassi, Collina, 2014,
pennarello, alluminio anodizzato, mogano,
184 x 33-56 x 7 cm
Ho avuto una predisposizione all’arte. Ad un certo punto ho sentito la necessità di ripartire da zero. Sentivo questa necessità per ciò che riguarda l’immagine. Quindi così ho fatto. Sono ripartita da zero, non solo a livello tematico ma anche del soggetto.
In questa mostra c’è come un percorso, quasi un’evoluzione. E’ un percorso che si sviluppa a partire da una riproduzione del soggetto, prima digitale e poi manuale; a partire da una materia prima, per poi passare ad una piccola porzione di spazio, per poi andare ai paesaggi e al rapporto relazionale.
Il minimo comune denominatore tra questi tre lavori è l’illusione prospettica e materica.
Nuvole, case, alberi, 2014,
pennarello, alluminio anodizzato, mogano,
 115 x 31 x 7 cm (dettaglio)
Sono lavori che anche se appaiono come delle stampe, sono in realtà fatti a mano. Faccio in modo che la matita pastello che io utilizzo, vada a perdersi nella sua identità, si mischi completamente con il supporto che mi fa da base. Così che la stampa diventi pastello e il pastello diventi stampa.

A.R.C. Giochi su l’ambiguità di visione.
M.B. Esattamente. L’ambiguità di ciò che è la percezione stessa.
Ad ogni lavoro ho dato due prospettive. La costruzione prospettica del perimetro del lavoro che va in una certa direzione, quando invece all’interno l’immagine va in una direzione opposta. Così si crea l’incontro tra due prospettive, appunto.

Martina Bassi, Mosaico, 2014,
matita pastello,
carta fotografica, alluminio,
 vetro, 100 x 99 x 3-20 cm
A.R.C. Quella che potrebbe essere reale e quella costruita.
M.B. Esatto. Qui il reale e il costruito vengono di nuovo a dialogare. Quale si può dire reale e quale il costruito, se entrambi sono costruiti, se entrambi paiono reali, entrambi sono fusi l’uno nell’altro.
Ad esempio questo è un frammento del pavimento della Stazione Centrale di Milano. Un pavimento realmente esistente che ho fotografato e ricreato totalmente, prima digitalmente, poi a mano. 

A.R.C. Non sei interessata a che sia riconosciuto il luogo di origine, il frammento vale per se stesso.
M.B. Esattamente, non mi interessa. Anche perchè l’identità si ha nel momento in cui si mostra. Tutto ciò che viene prima sicuramente influisce nella realizzazione di quella forma, ma poi è l’occhio che lo vede che gli deve dare un’identità.

Martina Bassi, òPPERSPEC, 
Exhibition view, 
Wilson Project, 2014,
A.R.C. Ritornare all’essenziale, mi hai detto, è un’esigenza. Perchè questa esigenza?
M.B. In realtà non c’è un prima. Il prima è l’allenamento della mano, della sensibilità e del modo di gestire la quotidianità. Che è l’ascolto delle cose e l’attenzione. Tutto il lavoro prima sta nell’osservazione delle forme.

A.R.C. Alcuni lavori hanno come origine l'osservazione di un frammento minerale, del particolare di un pavimento, poi ci sono i paesaggi. Come rappresenti l’illusione percettiva riguardo al discorso relazionale? Qui vedo dei ritratti. Raccontami.
M.B. Sono degli autoritratti che io faccio con altre persone.
Qui l’illusione prospettica che fa da tema per tutta la mostra trova in quest’opera una dimensione relazionale. Nel senso che, semplicemente, faccio una foto alla persona che mi sta guardando, mi faccio una foto mentre la guardo, disegno i due volti, li ricalco, li sovrappongo, segno i punti di intersezione delle linee e ricavo un terzo volto. E’ la formalizzazione di un’incontro di sguardi.

Martina bassi, Minerale,
 2014,
matita pastello,
carta fotografica,
 alluminio, legno,
183 x 45-27 x 2,5 cm
A.R.C. Parliamo della scelta dei materiali. Carta, allumino per i paesaggi. Questi ritratti sono realizzati su un’altro supporto. Perchè?
M.B. Il supporto si distingue dagli altri, è vero. Volevo che rientrasse in una dimensione relazionale, quindi ho scelto un supporto caldo. E’ pelle. Pelle di camoscio, su cui sono intervenuta con l’Uniposca.
E’ la realizzazione di un luogo di mezzo, che in realtà ovviamente non esiste, come se in questo momento realizzassi il volto che sta in mezzo a noi due. Ho riportato in vita, in qualche modo, l’incontro.

Autoritratto con Alberto, 2014, pennarello,
pelle di camoscio,
 35 x 30,5 cm (dettaglio)
A.R.C. ...una vita che non avrebbe realtà senza l’incontro, la relazione... Qual’è il titolo?
M.B. “Autoritratto con Alberto”.

A.R.C. Molto semplice, essenziale.
M.B. Del resto i paesaggi si chiamano “Collina”, “Nuvole, case, alberi”.
E’ l’esigenza di tornare a guardare le cose come sono, nella loro semplicità che cela mondi. Dopo tanta sovrastrutture, ti accorgi che guardi una cosa e in realtà non l’avevi mai vista, perchè appariva sempre in forme che non sono le sue. Non mi interessa la semplicità come banalità, ma la complessità nella sua fase iniziale. Mi interessa il momento in cui avviene la prima costruzione.
L’originalità in questo senso.


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